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Le nostre vite
Umberto De Pace

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Ci sono storie di uomini e donne che vale la pena raccontare, leggere o ascoltare. Attraverso le loro semplici e dirette parole scopriamo quello che alle volte si nasconde tra le pieghe delle nostre vite o che accade oltre la siepe delle nostre certezze e paure. Sono storie di vita, fiabe dei nostri tempi, testimonianze irriverenti, poesie sussurrate, lacrime versate, tracce di strade inesplorate. Sono fonti di gioia, dolore, tenerezza, disperazione, felicità e tristezza, specchi in cui è riflessa l'umanità del nostro tempo.
Ai confini dell'umanità




Profughi al confine tra Grecia e Turchia (foto Ansa)

Ciò che sta accadendo ai confini orientali e meridionali dell'Europa dovrebbe atterrirci ancor prima che preoccuparci. Non più pena, rabbia o sofferenza, per un attimo almeno dovrebbe incuterci smarrimento, angoscia, paura. Sarebbe un segnale positivo, un sussulto di vita, testimonierebbe la nostra presenza cosciente, a questo mondo, oggi. Non un domani quando sui libri o proiettati nelle sale cinematografiche o sullo schermo dei televisori, vedremo le immagini di quanto sta accadendo in questi giorni, e ci chiederemo, non tutti certo, ma in molti: ma io dov'ero? Ma noi che cosa abbiamo fatto o avremmo potuto fare? Non un domani, proviamo oggi questo dolore in diretta e domandiamoci cosa possiamo fare per tradurlo in pensieri e azioni che contribuiscano a lenirlo, curarlo, a fare in modo che tale orrore non si perpetui incessantemente come, oramai da troppo tempo, avviene.
Lungo quei confini, oggi se possibile in modo ancor più atroce, si stanno lacerando i più elementari diritti umani i quali, occorre chiarire in questi tempi oscuri in cui anche le parole sono state private del loro senso, rappresentano non un privilegio ma: pane, acqua, un letto dove dormire, una latrina dove evacuare i propri bisogni, una doccia e un cambio di vestiti dopo settimane o mesi senza potersi lavare, cure per le proprie ferite della carne, dell'anima e della mente, bombardata, sparata, tagliata, violentata, lacerata, magari da quel filo spinato accuratamente studiato per fare ancor più male alle masse di disperati che premono per scappare dalle guerre e dalla disperazione.

Una bimba nel campo profughi di Moria sull'isola greca di Lesbo (Gettyimages)

Lungo quei confini, uomini, donne, bambini, molti non accompagnati, anziani, malati, sono costretti a sopravvivere al freddo, al gelo, nel fango, sotto la pioggia, respinti da un confine all'altro come pedine di una partita che alcuni “irresponsabili”, chiamiamoli con il loro nome, capi di stato stanno giocando sulla loro pelle e nei loro paesi di origine. Ma questa forse è una storia vecchia che sappiamo, forse i più sono persino stanchi di ascoltarla. Ebbene per chi volesse fare invece un ulteriore sforzo sappia che in questi giorni, lungo quei confini, si è aggiunto un capitolo nuovo a quella vecchia storia fatta di ingiustizia, violenza e orrore. Oggi, lo possiamo vedere tutti dalle testimonianze raccolte, si è andati oltre con le polizie turca e greca che sparano lacrimogeni, alle volte proiettili, da un confine all'altro, la guardia costiera greca che spara sui profughi e a sua volta si deve difendere dagli assalti della guardia costiera turca, con le squadracce neonaziste di Alba Dorata che danno la caccia ai profughi, affiancati dalle forze dell'ordine locali.

Tensione alla frontiera di Kastanies fra Turchia e Grecia per il respingimento dei profughi
che vogliono entrare in Grecia
- Credit: Forze Armate Grecia (Avvenire.it)

Grecia vuol dire Europa, Turchia vuol dire Nato e quindi anche Europa, la gran massa di profughi su quel confine proviene dall'Afghanistan, dal Pakistan e dalla Siria, al cui confine settentrionale si sta consumando l'ennesima carneficina tra le forze del regime siriano di Assad, sostenute dalla Russia e le forze del regime turco di Erdogan affiancate dalle milizie jihadiste siriane.

Erdogan e Putin (foto Agi)

Mentre l'altro giorno Erdogan e Putin si stringevano la mano a Mosca stabilendo una tregua nel loro macabro “gioco” siriano, mentre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen esprimeva solidarietà alla Grecia e ribadiva che essa rappresenta lo “scudo d'Europa”, esternando compassione per i migranti e impegno a gestire con “unità, solidarietà e determinazione” la crisi, i profughi, quegli uomini, donne e bambini, respiravano i gas lacrimogeni, sentivano il sibilo dei proiettili, affondavano nel fango, tremavano dal freddo, si laceravano le vesti e le carni sul filo spinato, venivano braccati e picchiati nella boscaglia e i loro gommoni venivano respinti con aste e spari nell'acqua. Senza mai dimenticare che in quelle terre di confine altri uomini, donne e bambini, hanno le loro case, le loro vite, il loro lavoro e si trovano, loro malgrado, oppressi da un peso e una responsabilità più grande di loro.
Quello tra Grecia e Turchia non è il confine dell'Europa, quello oggi è il confine dell'umanità oltre la quale si sta consumando l'epilogo dell'inimmaginabile, oltre il quale vi è la sola barbarie.
Non ci si consoli pensando che quel confine è lontano, non ci si illuda che a noi non potrà mai accadere, non si anteponga la giusta preoccupazione per l'epidemia contingente, perché ciò che si sta consumando lungo quel confine è un male ben più profondo del Covid-19. E' quel cancro oscuro e latente che l'umanità porta nel suo DNA da sempre e che alle volte riemerge obnubilando le coscienze, diffondendo paura e insicurezza per poi barattarla con falsa sicurezza impregnata di violenza e oppressione. Ciò che viviamo in questi giorni nel nostro paese dovrebbe farci capire quanto fragili siano le nostre vite e quanto poco occorra per trovarsi al di là di un “confine” che fino a poco prima non avremmo mai immaginato potesse esistere. E, al contempo, quanto necessiti essere uniti e solidali per giungere tutti insieme a superare le avversità e le difficolta del momento.
Cosa possiamo dunque fare? Provato quel dolore e quella paura, ai quali all'inizio accennavo, traduciamolo quotidianamente nel sostenere la necessità e il dovere di garantire ai profughi innanzitutto i diritti umani fondamentali, che non possono essere oggetto di scambio o di ricatto da parte di nessuno; di assicurare loro la possibilità di protezione e accoglienza; di garantire la tutela e la sicurezza alle popolazioni locali, interessate dai flussi migratori, impedendo con fermezza agli sciacalli neonazisti e neofascisti di lucrare consenso sulle disgrazie altrui. Tutto ciò si può fare sostenendo le attività delle Ong e associazioni presenti in quei territori, richiamando alle proprie responsabilità le nostre istituzioni politiche e amministrative ma, soprattutto, sostenendo le ragioni di tale impegno nella nostra vita quotidiana, in famiglia, nei nostri luoghi di lavoro, tra i vicini, al bar, negli incontri casuali, perché è lì nel vivo della nostra comunità che da troppo tempo si sta insinuando il morbo, che non è più quello dell'indifferenza ma piuttosto quello della paura, dell'odio, dell'incapacità di riconoscere all'altro ciò che rivendichiamo giustamente per noi stessi. Questo è il nemico da combattere, non i profughi siriani o afghani, sopravvissuti alle bombe e oggi straziati ai confini di un'umanità che sta perdendo sé stessa. Un'umanità che ognuno di noi ha il dovere e la possibilità di contribuire a salvarla.

Umberto De Pace



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