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“Don Chisciotte” ieri e oggi
Nadia Zapperi


Don Chisciotte visto da Salvator Dalì
Don Chisciotte visto da Salvator Dalì

Ho letto “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes dall'inizio alla fine, non proprio tutto d'un fiato come del resto è consigliato anche da Vincenzo la Gioia che ne ha curato la post fazione dell'edizione Frassinelli.
E' considerato un classico, un libro dal grande respiro ma non è riuscito a piacermi. O meglio, nel Cavaliere errante ed in tutto ciò che gli succede ho ritrovato tutta la meschinità degli uomini che, ancora oggi, si divertono alle spalle di persone con problemi o disagio psichico. Quante volte al bar buontemponi offrono da bere all'alcolista solo per poi ridere di ciò che gli capita. Di come cammina, di come si comporta e di ciò che dice o racconta da ubriaco.
Lo stesso capita a Don Chisciotte, vittima non tanto della propria pazzia, di cui ne ammette la presenza solo in punto di morte, quanto delle persone che attorno a lui inscenano storie di damigelle in pericolo alle quali occorre salvare l'onore per il gusto di vedere cosa dice o come si comporta il Cavaliere.
Don Chisciotte è un “saggio-matto”, dotato di grande fantasia, soggiogato dalle letture di libri cavallereschi al punto da far suo quel mondo e quel tipo di vita. E' una persona fondamentalmente ingenua se si vuol considerare ingenuità la totale fiducia nel prossimo. Ed è per questo che si lascia ingannare e, davanti all'evidenza di alcuni fatti, è più propenso a credere all'intervento di maghi contro di lui piuttosto che all'inganno di chi gli sta accanto.
Nel Don Chisciotte troviamo il tema della pazzia descritta in tutta la sua purezza. Le allucinazioni visive e uditive, il perseguire il proprio delirio credendolo una realtà.

In fondo, chi è quella persona che non crede a ciò che vede ed a ciò che sente? Prima di chiunque altro, siamo noi stessi che ci fidiamo dei nostri sensi. E se siamo dotati anche di grande fiducia in noi stessi, perseguiremo il nostro istinto indipendentemente da ciò che gli altri ci dicono per dissuaderci.
Don Chisciotte è così sicuro di sé che riesce a trascinare nelle sue avventure persino il suo amico Sancho Panza, di gran lunga più sano di mente ma molto meno colto. Lo convince promettendogli ricchezze o il governo di una qualche isola che conquisterà. Ed è questa promessa che manterrà Sancho sempre a fianco del protagonista nonostante spesso rimanga vittima in assurdi duelli o sbalordito dalla saggezza mista a pazzia del suo padrone. Ma anche lui, una volta compreso come fare, imbroglierà Don Chisciotte seppure in totale buona fede e cadrà vittima dei tranelli degli altri personaggi del romanzo tanto da non comprendere più chi è il savio e chi il pazzo.
Ma forse io ragiono come fosse ai giorni nostri ed è questo il motivo per cui non riesco a cogliere il messaggio dell'autore nascosto nell'opera.
Ma anche a quei tempi Don Chisciotte restava un personaggio strano, un evaso dalla realtà. Si immaginava un mondo in cui vivere come meglio credeva, come più gli era appropriato. Niente mi distoglie dal pensare che il suo potesse essere un modo di reagire alla caduta dei valori di quel tempo, un rappresentarsi mentalmente un mondo ideale per sé ed entrarci a vivere per sentirsi meglio con se stesso.
Idealmente non è così la schizofrenia? Un vivere in fondo più libero dalle convenzioni e dalle ipocrisie di una società fondamentalmente morta nei valori? Una malattia seducente per gli studiosi perché inafferrabile come lo è l'anima. Comprensibile solo da chi ne è affetto e per questo inenarrabile. La si può solo descrivere dal di fuori, da ciò che si vede nei comportamenti del malato e dalle reazioni difensive o di timore di chi gli sta accanto. In fondo nulla desta paura più di ciò che è incomprensibile. Da qui nasce istintivamente il tracciare dei confini tra se stessi ed il malato per rassicurarsi sul fatto di essere sani. L'azione successiva sarà di distacco sia rifiutando ogni contatto sia deridendo o rendendo il malato, attivamente o passivamente, oggetto di scherno e di divertimento. E qui torniamo a Don Chisciotte. Che egli abbia vissuto nel 1600 o che viva oggi nel 2008, la sua storia non cambia.

Nel romanzo mi ha colpito un altro personaggio per la lealtà verso il protagonista. Credo sia doveroso parlare del baccelliere del paese, Sansone Carrasco, che lascia partire Don Chisciotte per seguirlo ed indurlo a tornare ma non con le parole, che già non erano bastate ad impedirgli di lasciare la propria casa per inseguire le chimere della sua fantasia, bensì fingendosi anch'egli un Cavaliere e sfidandolo a duello. Se avesse vinto lui, Don Chisciotte avrebbe dovuto tornare indietro, in caso contrario lo avrebbe lasciato continuare. Contrariamente agli altri personaggi del libro, l'amico si mette dentro la follia del protagonista, in totale sintonia con le leggi e le regole della Cavalleria errante, non per prenderlo in giro, bensì per proteggerlo e riportarlo a casa.
Cervantes ha preannunciato il detto, che allora non esisteva ancora perché è nato più tardi con l'avvento della psichiatria positiva, per cui “bisogna sempre dare ragione al matto” condividendo il suo delirio per conquistarne la fiducia.
D'altra parte è difficile dire ad una persona con le allucinazioni visive o uditive: “non è vero che vedi o senti quella cosa che mi stai raccontando”. Ed è ancora più difficile però, fingere di crederci. Ma Cervantes ha preceduto tutti e ha dato, nel personaggio del baccelliere, un modo diverso di vedere, interpretare, comprendere, trattare, la malattia mentale. Non so se lo abbia fatto consapevolmente o meno. Non credo perché il suo messaggio era sicuramente tutt'altro. Ma io ho colto questo particolare e Carrasco si è preso tutta la mia simpatia. Peccato che sia arrivato quasi al termine dell'opera perdendosi qua e là dentro a quasi mille pagine.

Nadia Zapperi
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copertina
Don Chisciotte della Mancia
Cervantes, Miguel de
Frassinelli - classici stranieri, 1997

A Monza al LIBRACCIO
22,00


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  2 aprile 2008