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Šoht (Foibe)
di Franco Isman


Soht (foibe)


Renato Sarti è un autore impegnato e il suo “Mai morti”, con la forte interpretazione di Bebo Storti,
nei panni di un nostalgico della efferata X mas, si può considerare un classico.
Adesso, al Teatro della Cooperativa, a Milano, è in scena “Šoht (Foibe)”, con l'interpretazione dello stesso Bebo Storti e dell'attrice Tanja Pecâr che recita in italiano, con un bell'accento triestino, ma anche in sloveno, forse più brava di lui.

Ci si poteva aspettare un lavoro che, oltre a celebrare il sacrificio dei tanti triestini e istriani che finirono “infoibati”, in parte, grande o piccola che sia, senza alcuna colpa, compresi alcuni membri del CLN (Comitato di liberazione nazionale), mettesse in luce anche gli antefatti e cioè quanto, purtroppo, gli italiani, il fascismo italiano, avevano fatto nel ventennio per “italianizzare” l'Istria e la Dalmazia, arrivando ai gravi crimini di guerra durante l'occupazione della Iugoslavia e fino all'otto settembre 1943.

Giusto ricordare le foibe e cosa hanno significato, ma non certamente strumentalizzarle come fanno i nostalgici e come, del resto, è stato fatto con la stessa istituzione del Giorno del Ricordo, a pochi giorni dal Giorno della Memoria, con l'evidente scopo di sminuire l'importanza di questo e della tragica unicità dello Sterminio, di fare cioè di ogni erba un fascio.
Renato Sarti, triestino, nella presentazione dell'opera, ha affermato che dopo la fiction "Il cuore nel pozzo" “in cui uno slavo orco-comunista per tre ore si è dilettato in incendi, torture e stupri” ha ritenuto necessario con Šoht di “affrontare, senza alcuna reticenza, un capitolo delicato e complesso, che per il suo carico di dolore esige rispetto e rigore”.

Rispetto e rigore presuppongono innanzi tutto obiettività, questo è ciò che può servire per arrivare ad archiviare il passato, a ricordarlo senza più odi.
Non è quello che è stato fatto nella citata fiction, vista peraltro da milioni di telespettatori, in cui si sono personalizzate ed enfatizzatele le sofferenze e la morte inflitte a tanti italiani, ma, purtroppo, non è neppure quanto si è fatto con questa opera teatrale decisamente di parte e non obiettiva, a partire dal titolo che privilegia il nome slavo Šoht a quello italiano foibe, che un così tragico significato ha assunto.

La prima parte dello spettacolo in cui Sussi e Biribissi, nomi poco adatti alla serietà dell'argomento, esplorano un anfratto carsico vestiti da speleologi, mette in luce le angherie ed i delitti commessi dagli italiani contro gli slavi a Trieste e nell'Istria, a partire dalle violenze squadriste del 1920 con l'incendio a Trieste del “Narodni Dom” (ma gli italiani lo chiamavano Hotel Balkan), alle infamie dell'occupazione militare, che poco hanno da invidiare alle barbarie naziste in Italia, alla creazione del “lager” di Arbe (ma perché cavolo nel lavoro viene chiamata con il nome slavo di Rab?), per finire alle torture del famigerato Collotti dopo l'otto settembre. Un racconto a forti tinte, che presenta fatti poco noti, purtroppo avvenuti, ma enfatizzando la componente etnica di questi: le violenze squadriste non erano certo avvenute soltanto a Trieste e Collotti non riservava i suoi “trattamenti” ai soli slavi.

Nel secondo tempo si tratta l'argomento foibe, ma con un atteggiamento estremamente riduttivo, se non esplicitamente negazionista.
La cosiddetta foiba di Basovizza, a due passi da Trieste, non è in realtà una foiba ma il pozzo di una miniera abbandonata (e allora?) e la valutazione di 500 metri cubi di corpi “infoibati” (!), indicata sulla lapide, è stata poi corretta in 300 (o viceversa); alcuni elenchi di presunti infoibati, per esempio quella redatta dall'ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, detto Gianni Lagrima, presentano delle inesattezze: nomi ripetuti più volte, donne indicate sia con il cognome da nubile che da sposata e simili.
Non si fanno numeri, anche se studi storici attendibili (Giampaolo Valdevit, Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Gianni Oliva) danno una valutazione di 4000, 5000 infoibati. Anzi in una lunga e un po' macabra scena del ritrovamento di corpi nella foiba di Basovizza da parte degli Alleati, si dà l'impressione che di pochissime persone si tratti. E nel contesto si lascia intendere che si tratta comunque di aguzzini fascisti.
Non c'è stato genocidio, si racconta, infatti 300.000 italiani hanno potuto lasciare indisturbati l'Istria: nemmeno una parola sul perché l'abbiano dovuto fare e sulla tragedia rappresentata da un tale esodo. Reticenza totale.
Speravamo in un'opera che, di quel periodo tragico volesse dare un'immagine equilibrata che potesse contribuire a pacificare gli animi ma ci troviamo di fronte all'esatto contrario.

Nel corso dello spettacolo c'è un intermezzo leggero in cui Bebo Storti interpreta il comico triestino Angelo Cecchelin che, negli anni Trenta, con le sue battute spesso caustiche nei confronti del regime, aveva subito numerosi processi e qualche condanna. Abbastanza bravo l'attore, ma Cecchelin lo era certamente di più e non credo che la performance possa essere molto apprezzata da chi triestino non è.

Franco Isman


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  1 dicembre 2005