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diana ed atteone


Il Parmigianino a Fontanellato
La favola di Diana e Atteone
a cura di Primo Casalini


Nel 1524 diventa inaccessibile la Camera di San Paolo del Correggio, perché al monastero di cui fa parte viene applicata una rigida clausura, successiva alla scomparsa della badessa Giovanna da Piacenza. Nello stesso anno il Parmigianino ventenne affresca una piccola sala nel castello di Fontanellato, ed è evidente il collegamento con gli affreschi della Camera di San Paolo. Tutto semplice, almeno in apparenza: Galeazzo Sanvitale, conte e signore di Fontanellato, vede e apprezza a Parma la stanza della badessa Giovanna, sceglie un tema molto simile (sempre di Diana si tratta) e l'affida ad un pittore molto giovane che stava dando ottima prova di sé : Francesco Mazzola, nato nel 1503, presto orfano di padre, ed allevato dagli zii Michele e Pier Ilario Mazzola, pittori modesti ma abili nel crearsi una loro piccola fama locale, e poi nello sfruttare quella crescente del nipote.
Si tratta della rappresentazione del mito di Diana ed Atteone: il cacciatore Atteone vede Diana nuda presso una sorgente in mezzo al bosco. La dea lo punisce trasformandolo in cervo e facendolo sbranare dai suoi stessi cani. La fabula è raccontata nel terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Eccone alcuni versi:

Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
inplevere nemus circumfusaeque Dianam
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.
Metamorfosi (Libro III, vv.138-253)

Traduzione: “E mentre Diana si bagnava lì alla solita fonte, ecco il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando a caso per il bosco che non conosceva giunse in quel luogo sacro: lì lo portava il Fato. Appena entrò nell'antro stillante dalla sorgente, le ninfe, nude come erano, alla vista dell'uomo si percossero i petti, riempirono di urla improvvise tutto il bosco e si disposero attorno a Diana per celarla con i loro corpi; tuttavia la dea più alta di loro le sovrastava tutte dal collo in su”.

il corno da caccia ed i levrieri

Fontanellato non è lontano da Parma ; si prende la via Emilia verso Piacenza, si passa il ponte sul fiume Taro e poi si svolta a destra; meno di 15 chilometri, in totale. Il castello è al centro del paese, e non è scenografico come quello di Torrechiara (qui siamo nella bassa), ma è vasto e ben conservato. La stanza del Parmigianino è al pianterreno, e questo è singolare, visto che si trova fra altre stanze che erano locali di servizio e non al primo piano in cui c'era l'appartamento comitale. La stanza ha dimensioni assai ridotte, molto minori della camera della badessa Giovanna: cm 435 x 350 x 390, per questo motivo fuori c'è un utile spazio didattico per ridurre la permanenza dei visitatori all'interno. La finestra verso il paese è posteriore al tempo degli affreschi e non è chiaro che destinazione, che uso avesse la stanza, a cui nel tempo sono stati attribuiti diversi nomi, quasi tutti riguardo ad un utilizzo da parte di Paola Gonzaga, la moglie di Galeazzo: bagno, stufetta, camerino, boudoir, persino “delizia campagnola”. Il Vasari di questi affreschi non parla, come non parla della Camera di San Paolo, anche se le sue informazioni sul Parmigianino sono di prima mano, provenendo da Gerolamo Bedoli, un buon pittore che del Parmigianino era anche parente, e che il Vasari conosceva di persona, mentre le informazioni riguardanti il Correggio erano più indirette, e quindi meno affidabili. Inoltre il Parmigianino era ben conosciuto a Roma ed a Bologna, città dove aveva trascorso anni interi. Però il Vasari parla degli affreschi nelle cappelle di San Giovanni a Parma, che sono preesistenti di poco a quelli di Fontanellato. A pensarci, tutti questi aspetti, il pianterreno, le dimensioni ridotte, il fatto che la stanza fosse buia, la mancanza di notizie sia da parte del Vasari che da parte di altri, hanno un che di riduttivo, del tutto in contrasto non solo con la qualità degli affreschi, ma anche con l'impegno decorativo e col programma culturale che nella stanza si nota e che era certamente voluto da Galeazzo, da Paola e da chi li consigliava, fra cui è lecito supporre che ci fosse anche chi aveva consigliato la badessa Giovanna.

un angolo della stanza

La scelta del mito, con la rappresentazione di Diana vicina ad una sorgente, con uno specchio al centro della volta, le dimensioni ridotte della stanza, e la presenza fra gli affreschi di un ritratto che potrebbe essere quello di Paola Gonzaga, hanno fatto pensare a molti critici che il bagno fosse la destinazione più probabile, anche se, come vedremo, altri elementi scoperti negli ultimi anni rendono possibili altre ipotesi.
Lo specchio al centro della volta è racchiuso da una cornice lignea dorata con l'iscrizione “RESPICE FINEM” (guarda la fine). Tutto attorno, il cielo azzurro, poi un pergolato con intrecci di canne e con ghirlande e putti, alcuni alati ed altri no; alcuni oculi nel pergolato danno ancora sul cielo, e scendendo ancora si trovano quattordici lunette (quattro nei lati lunghi e tre nei lati corti). Nelle lunette è affrescata la storia di Diana ed Atteone. Ancora sotto, una scritta che percorre tutta la stanza: "AD DIANAM / DIC DEA SI MISERUM SORS HUC ACTEONA DUXIT A TE CUR CANIBUS / TRADITUR ESCA SUIS / NON NISI MORTALES ALIQUO / PRO CRIMINE PENAS FERRE LICET: TALIS NEC DECET IRA / DEAS. Traduzione: “A Diana. Dì, o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è dato da te come cibo ai suoi cani? Solo per una colpa è lecito che i mortali patiscano una pena: una tale ira non si addice alle dee“. La scritta prende le parti di Atteone, e questo tema c'era già nel testo di Ovidio, solo che qui diviene esclusivo, e si collega col respice finem attorno allo specchio, il cui ammonimento è che si può essere puniti anche senza aver commesso colpe. Come si vede, lo svolgimento del tema è tragico, c'è una protesta contro la crudeltà della dea, mentre a Parma c'era l'esaltazione delle virtù di Diana, con cui Giovanna veniva identificata. Infine, non c'è decorazione nella parte inferiore delle pareti, come non c'era nella Camera di San Paolo. Si è fatta una ipotesi del tutto analoga, cioè che ci fossero degli arazzi.

atteone che si tramuta in cervo, diana nella sorgente, due ninfe

Già a Parma nella stanza della badessa si è in presenza di un programma iconografico dichiarato, anche se di difficile spiegazione, ma i critici per molto tempo non solo l'hanno ignorato, ma rimosso, come se non esistesse. La stessa cosa è successa a Fontanellato, in cui il programma più che dichiarato è nascosto, come è quasi nascosta la stanza dell'affresco. In apparenza, la storia di Diana ed Atteone è rappresentata con molta fedeltà al testo di Ovidio, ma ci sono delle singolarità che gradualmente hanno convinto molti studiosi a modificare il significato della rappresentazione.
Ecco alcuni esempi.
1. Su una parete c'è una ninfa inseguita da due cacciatori: le sue vesti, come colore e foggia, sono le stesse di quelle di Atteone che si sta tramutando in cervo; non solo, le braccia e le mani di Atteone hanno una apparenza femminile.
2. La scena di Atteone-cervo sbranato dai suoi cani è priva di violenza e di movimento: è una tragedia immobile, e certamente ciò non dipende da incapacità rappresentativa del Parmigianino, che aveva già ben mostrato in San Giovanni le sue qualità, come anche in altre scene qui a Fontanellato. E' una chiara scelta, rappresentare Atteone-cervo ed i suoi cani in quel modo.
3. Sopra la scena con Atteone sbranato dai suoi cani, non sono rappresentati due putti, ma due bambini veri, di cui uno è un neonato, sorretto dall'altro, più grande. Il neonato ha una collana di granati ed ha in mano un ramo di ciliegie.
4. In asse con la rappresentazione di Diana nuda nella sorgente, dall'altra parte della stanza, sopra l'unica finestra, c'è il ritratto di una donna in abito cinquecentesco molto scollato; in una mano ha delle spighe e nell'altro una coppa ad ampie volute appoggiata su un vassoio.

paola gonzaga?

Certamente non è la curiosità, la voglia di originalità che ha spinto il Parmigianino a fare queste scelte strane: voleva significare qualcosa, ma in modo più criptico rispetto al Correggio, che è molto chiaro nella esposizione (nel suo caso, è il programma iconografico che di per sé è complesso).
Nel 1970 Maurizio Fagiolo Dell'Arco pubblicò: “Il Parmigianino. Studio sull'ermetismo nel cinquecento” Ed. Bulzoni, Roma. E' un saggio in cui l'autore si concentra sull'interesse all'alchimia da parte del Parmigianino, di cui già aveva scritto il Vasari, trattando però della fase finale della vita del pittore, quella degli affreschi alla Steccata. Il Fagiolo Dell'Arco estende la chiave alchemica a tutte le opere del Parmigianino, a partire dagli affreschi in San Giovanni, insistendo particolarmente sugli affreschi di Fontanellato. Molte delle sue argomentazioni sono convincenti, anche perché raccorda a Fontanellato il celebre ritratto di Galeazzo Sanvitale che oggi è a Napoli, quasi come pendant dell'affresco della donna con la spiga e la coppa ad ampie volute (ossia un cantaro), che sarebbe Paola Gonzaga, in un rapporto Giove-Sole-Galeazzo con Diana-Luna-Paola. E la sala sarebbe una specie di balneum nuptiale con sponsus et sponsa. Per dirla con Jung, grande studioso di alchimia, il bagno è ”il rituffarsi nell'oscura condizione iniziale”, la coniunctio oppositorum. In effetti Galeazzo, nel ritratto di Napoli, mostra una medaglia con due numeri: 7 e 2. 7 è il numero della Luna e 2 è il numero di Giove. Giordano Bruno, altro esperto di alchimia, ma che presumibilmente non aveva visto la stanza di Fontanellato, scrive: “I cani, pensieri di cose divine, vorano questo Atteone, facendolo sciolto dalli nodi dei perturbati sensi, onde più non vegga per forami e per fenestre la sua Diana, ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto l'occhio a l'aspetto de tutto l'orizzonte”. Il che fa capire che l'aspetto da sacra rappresentazione della morte di Atteone può essere il segno della visione unitiva che supera quello che Jung chiamava il sistema delle cassettine, cioè quello che noi usiamo correntemente per vedere e capire. Chi legge Jung, alternando ammirazione e disagio, sa bene che il suo modo di scrivere non è rettilineo, ma ambiguo, aperto a tante possibilità, simile proprio al modo di procedere degli alchimisti.

galeazzo sanvitale

Nel 1983 Ute Davitt-Asmus, una studiosa tedesca, pubblicava un saggio in cui esibiva un documento da lei ritrovato nell'Archivio di Stato di Parma, e datato “4 settembre 1523”: è il documento di battesimo di un figlio di Galeazzo e di Paola di cui non si ha più alcuna notizia nell'archivio di famiglia: la supposizione che sia morto poco tempo dopo la nascita è la più naturale. Difatti, la collana di granati e le ciliegie sono simboli di morte precoce. E la scritta di protesta verso la dea crudele, Atteone-cervo che mansueto si abbandona ai suoi cani, e il respice finem diventano il segno di un dolore recente e vissuto come ingiusto. Anche la metamorfosi della ninfa in Atteone si può capire in questo senso: la ninfa di Diana che nella sofferenza diviene Atteone. Per Pietro Citati la donna rappresentata con la spiga ed il cantaro potrebbe identificarsi, oltre che con Paola, con Demetra, la dea delle messi e dei campi, a cui viene sottratta la figlia Proserpina, un esempio di maternità ferita. Ancora ambiguità, perché l'immagine di Paola dà una impressione di gioia.

i cacciatori, la ninfa, il levriero al guinzaglio

Certamente non tutto è stato chiarito, ma quasi tutto acquista un senso: la piccolezza della stanza, la sua oscurità, per cui solo al lume delle torce gli affreschi erano visibili, la separatezza dall'appartamento comitale, persino la vicinanza alle stanze di servizio, se è vero che una di esse veniva utilizzata da Galeazzo alchimista; anche il silenzio delle fonti, la mancanza di notizie. Si tratterebbe di un un bagno, che era anche una cripta esoterica a cui solo gli iniziati potevano accedere. Rendersi conto di questi moventi e della rappresentazione che ne consegue non è come una caccia al tesoro ( che sarebbe alchemicamente appropriata…), ma è poter fruire di una capacità di apprezzamento più matura. Soprattutto se ci si trova di fronte ad artisti così universalmente apprezzati come il Correggio ed il Parmigianino. Fino a pochi anni fa, l'apprezzamento era accompagnato da riserve, a partire dal Vasari. Un apprezzamento con tanti se: se il Correggio fosse stato a Roma… se l'alchimia non avesse distratto il Parmigianino…

paola gonzaga?

Subito dopo Fontanellato, il Parmigianino andrà a Roma, salutato da tanti come il nuovo Raffaello; dopo il sacco del 1527 sarà a Bologna, poi di nuovo a Parma, per l'impresa della Steccata, che sarà la sua fine, forse per la ragione che adduce il Vasari, cioè per la smodata passione per l'alchimia, ma anche per l'incomprensione dei committenti. Flavio Caroli aggiunge un motivo intrigante: doveva dipingere oltre gli affreschi del fascione, che ci sono rimasti, anche la semicupola dell'abside; e lì il punto di riferimento era il Correggio, che nelle sue cupole pensa e dipinge l'aria, e come dice l'Argan: “Se l'arte del Correggio scavalca il problematismo manieristico e apre la via al Barocco, questa apertura viene ritardata proprio dal suo maggior discepolo, il Parmigianino. Manca al Parmigianino l'impulso sentimentale e religioso; è un temperamento sottile e sofistico…”. Ma i committenti crearono dei problemi anche al Correggio; ci fu chi definì la cupola del Duomo come “un guazzetto di rane”, e difatti il Correggio se ne tornò a casa e cominciò a lavorare per Mantova, probabilmente tirando un respiro di sollievo.

il corno da caccia, atteone sbranato dai cani, i due bambini

Due artisti in apparenza simili, ma che, dopo il breve incontro in San Giovanni e nella stanza della badessa, si evitano, utilizzano carte geografiche diverse. Sarà così anche per i posteri, perché pochi artisti sono stati tanto apprezzati per secoli, molto di più di quello che critici distratti abbiano notato: ma si sceglieva o l'uno o l'altro. Due visioni di vita completamente diverse.
Le due stanze avranno un destino simile: scomparire per secoli. La stanza di Fontanellato verrà descritta per la prima volta solo nel 1696, da Carlo Giuseppe Fontana, mentre la stanza della badessa Giovanna riemerge dalla clausura solo nella seconda metà del '700, con la visita entusiasta di Anton Raphael Mengs, che è del 1774 e col primo testo a stampa, che Ireneo Affò pubblica nel 1794.

Ci sono diversi siti internet, ottimi sia come testi che come immagini, per chi volesse approfondire l'argomento. Ne segnalo almeno tre, che mi sono stati particolarmente utili: quello della recente Mostra del Parmigianino, quello del Comune di Fontanellato , ed il sito Parmigianino 2003, in cui si trovano ottime informazioni sui numerosi castelli della provincia di Parma.

ninfa col levriero



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  10 aprile 2004