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LETTERA DA ROMA
Cala il piccone su due secoli di tutela del “Bel Paese”
di Fabio Isman


Mussolini picconatore

«Camerati! I lavori per l'isolamento dell'Augusteo, ai quali oggi io dò l'avvio hanno una triplice utilità; quella della storia e della bellezza, quella del traffico, quella dell'igiene. Per isolare la tomba del primo imperatore di Roma, si demoliscono molte vie. Si tratta di 126 case, che coprono un'area di 27 mila mq. Anche la creazione di una grande piazza e di un largo varco sarà di grandissimo giovamento al traffico urbano, così come è accaduto per via dell'Impero, dove passano da 25 mila a 30 mila veicoli nelle 24 ore. Non si tratta di arterie puramente archeologiche, ma di grandi strade dove fluisce la vita imponente e continua della città. E le case che si demoliscono, rappresentano un arretrato gravissimo in fatto d'igiene. Quarta e non ultima utilità, con queste demolizioni e costruzioni di nuovi edifici, si dà lavoro per tre anni a numerosissimi operai di ogni categoria. E ora cedo la parola al piccone» (citato in Antonio Cederna, Mussolini urbanista, Bari, Laterza, 1979). Era il 22 ottobre 1934: grazie a questi lavori, per 70 anni Roma sarebbe rimasta l'unica capitale europea sprovvista di un auditorium; abbattuto quello in cui, dal 1908, avevano suonato e diretto tutti i massimi nomi del concertismo mondiale.

È un antefatto, magari da completare con le parole che Marcello Piacentini (28 ottobre '30) premette alla presentazione a Mussolini del piano regolatore della Capitale, «svolto sulla base dei concetti che Voi stesso, con largo respiro di petto romano e con sintetica lucidezza di mente latina c'illustraste». Serve solo per avvertire che, su scala ancora maggiore, Sua Maestà il piccone è tornato di moda. Ha appena finito di demolire, in un clima di mistificazione e con una latitanza di reazioni che francamente preoccupa (ma anche i girotondini, dove sono mai andati a finire?), le norme che, dal tempo degli Stati preunitari, cioè da oltre 200 anni, erano alla base della tutela culturale e ambientale nel nostro Paese, e lo avevano reso diverso, più progredito, più tutelato, più difeso, rispetto a qualsiasi altro.

Spiega Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa (in Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002) che «dalle antiche collezioni sovrane al patrimonio culturale della Repubblica italiana, dai più antichi editti e decreti degli Stati preunitari fino alla legge 1089 del 1939 corre un filo costante: il rispetto di alcuni principi ispiratori che nulla hanno perso della loro attualità […]. Il patrimonio artistico pubblico è di proprietà dei cittadini, in quanto titolari della sovranità popolare ereditata dalle antiche dinastie e repubbliche; lo Stato ha il dovere di tutelare il patrimonio culturale, pubblico e privato, nella sua interezza. In base alla medesima ratio, il patrimonio culturale di proprietà pubblica, in quanto costitutivo dell'identità nazionale, è inalienabile». Grazie mille: lo era. Il combinato disposto (direbbero i legulei) delle norme sul condono edilizio e sulla cartolarizzazione degli immobili di proprietà pubblica, nonché, last but not least (e questo lo direbbero invece gl'inglesi), il Codice dei Beni culturali varato la scorsa settimana dal ministro Giuliano Urbani, che li recepisce, hanno infatti capovolto diametralmente la situazione.

Se prima la condizione naturale dei beni culturali di proprietà pubblica era l'inalienabilità, e la loro vendita costituiva un'eccezione non facile da verificarsi, adesso la loro condizione naturale è divenuta la cedibilità, e l'inalienabilità un'eccezione. Tanto che occorrono una serie di pratiche e accadimenti affinché sia sancita. Non solo: se prima allo Stato spettava l'ultima parola nel campo della tutela ambientale, grazie al potere di annullare le autorizzazioni degli enti locali, ora gli resterà solo il diritto ad un parere preventivo, puramente consultivo, emesso dalle sue soprintendenze.

Questo in un Paese dove «negli ultimi 50 anni si è costruito nove volte tanto che nei precedenti venti secoli» (Antonio Paolucci, storico dell'arte, soprintendente a Firenze, già ministro dei Beni culturali nel Governo Dini); dove, ogni anno, il potere di annullare le autorizzazioni degli enti locali scongiurava circa tremila scempi; dove, grazie al sistema del silenzio-assenso, ormai infelicemente introdotto, il Ministero avrà solo 120 giorni di tempo per bloccare, in modo motivato, la vendita di un immobile pubblico che rivesta qualche pregio storico, o artistico. Ma alle soprintendenze territoriali, per istruire la pratica, ne spetteranno appena 30. Riceveranno la richiesta, magari di un Comune, di poter alienare la “particella 127 sub 44”; dovranno esaminare di che cosa si tratti; vedere lo stato dell'immobile e magari cosa nasconde, forse studiarlo attraverso le carte d'archivio, nonché fornire il proprio responso.

Già, le soprintendenze: il loro funzionario-tipo, racconta Irene Berlingò che rappresenta quelli tecnico-scientifici del dicastero, ha 50 anni; dopo circa 20 di carriera dirigenziale guadagna 1.300 euro al mese; e non ha forti motivazioni visto che l'ultimo concorso per la dirigenza risale al '97. In più, alle soprintendenze mancano, rispetto agli organici, sei architetti su 100; il 15 per cento degli storici dell'arte e il 20 degli archeologi. Per conto del Comitato per la Bellezza, Vittorio Emiliani rileva che, in Sardegna, sette architetti devono definire 7.600 pratiche all'anno: quattro ciascuno per ogni giorno lavorativo; e sette a testa, sempre al giorno, i loro colleghi liguri; nelle Marche, gli architetti sono quattro in tutto; otto in Umbria e nella Puglia; nove in Calabria, costretti a svolgere sopralluoghi anche in posti assai remoti e perfino impervi.

Ci sarebbero poi ancora altri corollari: la possibilità di dare i musei in concessione ai privati, e in comodato, sempre ai privati, i singoli beni di proprietà pubblica; le soprintendenze ai cui vertici abbondano sempre più gli architetti, e gli storici dell'arte diventano una rarità; l'artificiosa separazione tra tutela e valorizzazione (la prima, però attenuata quanto si è visto, spetterà allo Stato; la seconda, demandata alle Regioni); perfino la divisione tra “beni maggiori” e “beni minori”, che mina l'unitarietà della tutela ed è pericolosissima. Il valore più vero del nostro Paese è la disseminazione dei propri beni artistici e storici che ovunque possiede; la rete di cultura –maggiore o minore- che lo pervade e lo innerva. E poi, perché dimenticare quanto racconta un grande studioso e collezionista, sir Denis Mahon, che, fino a 50 anni fa, comperava i disegni di Guercino «perché costava meno che fotografarli», visto che, a quei tempi, Giovan Francesco Barbieri (1591-1666) era appunto considerato un “minore”?

Ma questi sono, appunto, corollari. Per carità: faccende di grande rilievo; di enorme importanza; su cui si potrebbe discutere per settimane intere. Però, di fronte al piccone che sta demolendo i principi su cui per due secoli si è fondata la tutela, riescono a diventare perfino delle inezie. Al principe Ludovisi che, a fine Ottocento, gli mostrava il piano con cui avrebbe lottizzato la propria villa (dal che il quartiere Ludovisi: quello di via Veneto), lo storico tedesco Theodor Mommsen (1817-1903) replicò: «Non sapevo che i nobili romani usassero mostrare le proprie vergogne in pubblico». Ecco: forse, oggi ci manca un Mommsen; forse, potremmo accontentarci anche di un Antonio Cederna, o Federico Zeri, o Giuliano Briganti. Invece, al ministero siede Giuliano Urbani, anche se l'autentico ministro sembra essere Giulio Tremonti: cioè, due autentici e distruttivi “picconatori”, come lo era Mussolini eternato da Achille Beltrame nelle tavole della Domenica del Corriere; altro che Francesco Cossiga, ai tempi in cui era Presidente della Repubblica: non c'è dubbio che i due, ormai, gli hanno soffiato il titolo ed anche il soprannome.

Fabio Isman
inviato speciale de Il Messaggero


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  25 gennaio 2004