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Il sistema Italia:
dal "regime" al continuismo?
di Michele Casiraghi


Alcune questioni ormai evidenti mi spingevano a pormi questa domanda, felice se qualcuno mi poi mi avesse smentito.
Oggi, su Repubblica, compare un articolo di Scalfari che mi rincuora: parte di quei dubbi evidentemente sono di tanti cittadini, se un giornalista della sua caratura ne fa oggetto dell'articolo di fondo.

Vengo alla prima questione, ormai quasi vetusta ma non accademica: il governo Berlusconi ha le caratteristiche di un regime, con quel che ne può conseguire?
Se il governo di Berlusconi sia o meno un regime di tipo assolutista (un ibrido ceusescu/peroniano) penso ce lo dirà, soprattutto, la velocità dello sgretolamento del sistema che ha generato e che lo sorregge.
I governi di stampo democratico, nel sistema dell'alternanza, sono generalmente soggetti a transizioni: l'uno va, l'altro viene. I partiti entrano magari in crisi, cambiano leader: difficilmente spariscono, semmai si scompongono e ricompongono.
Invece quando tendono a farsi regime permeando ogni pertugio sociale, come fece anche quello democristian/craxiano di recente memoria, il processo è diverso: aperta una crepa, crollano rapidamente.
Stando alla lettura dei media, mi sembra precisamente questo il processo che investe la casa delle Libertà con annessi e connessi: naufraghi e topi si apprestano ad abbandonare la nave che, dapprima inclinata, sempra poi destinata a inabissarsi repentinamente. Vedremo se il Presidente nostromo saprà evitarlo.

La seconda: mentre le transizioni e le crisi dei partiti richiedono generalmente processi di riacquisizione di un nuovo equilibrio più lunghi, ridislocazioni di elettorati e blocchi sociali non sempre rapidi,  i crolli improvvisi obbligano a una scelta rapida (o di qua o di là) che spesso si consuma non attraverso la metabolizzazione dei cambiamenti, ma a prescindere dai cambiamenti e grazie alla preservazione di elementi anche forti di continuismo sotterraneo.
Sempre i media, di questi tempi,  ci segnalano diversi sintomi di questo possibile continuismo: si sprecano, ormai, i segnali tra sponde opposte (soprattutto Margherità e CCD; ma anche tra altri sul tema del ritorno al proporzionalismo)  alla faccia di un bipolarismo che, più che imperfetto, sembra volersi trasformare, appunto,  nella miglior maschera del continuismo sostanziale.
Alla vigilia di un ciclo economico che appare ipoteticamente espansivo - certo,  a condizione di stringer di nuovo la cinghia - Confindustria rilancia il dialogo (pro domo sua), proponendoosi nella dialettica governo/opposizione come forza riformatrice e richiamando l'opposizione sociale a sottostare - di nuovo - alla favola reiterata dell'interesse primario comune (lo "sviluppo" a prescindere). La recente assunzione di Montezomolo nell'empireo del cielo assembleare CGIL ne è conferma. Di nuovo, gli elementi di tattica tandono a confondersi con quelli strategici: tratto tipico della storia italiana.

La terza: non c'è sviluppo senza dialogo, sia chiaro: ma chi lo pagherà, questa volta, lo sviluppo? Lo si pagherà con il protrarsi del meccanismo dei due tempi (prima i sacrifici e le riforme strutturali, poi i benefici) che raramente ha visto realizzarsi la seconda parte, neppure ai tempi supplementari?
I ceti di riferimento del blocco sociale berlusconiano, comunque vada, son già passati all'incasso. A chi toccherà ora pagare i costi di quelle rapine legalizzate, dei guasti disseminati? Ieri sera quella figura rigolettiana del signor economista Brunetta (economista de che?) dichiarava beatamente a Primo piano che nuove risorse per conetenere il debito pubblioc arriveranno dalla trasformazione delle risorse erogate al Mezzogiorno a fondo perduto in capityali erogati a interesse. Credo, nel campo della finanza creativa, che ci si appresti in tgal modo a contabilizzare come entrate future crediti che risulteranno inesigibili.
Toccherà quindi ai soliti noti (lavoro dipendente, pensionati, giovani precari, welfare striminzito) ripianare i certi buchi di bilancio?
Temo di sì, se guardo il confuso agitarsi degli orizzonti politici: il dibattito economico ruota intorno al suo cielo di stelle fisse e con i medesimi e costanti pianetini metodologici e teorici. A contrastare questa fissità, potrebbe esser solo il fatto che, lì dentro, in quegli schemi, ampie parti di società non ci possono proprio più stare.
La precarietà e le nuove povertà diffuse, il senso di incertezza per il futuro che ha toccato tanta parte della società italiana, ha bisogno d'altro che delle usurate ricette degli economisti nostrani di destra e di sinistra.
D'altro che di una oculata amministrazione: prima che d'ogni altra cosa, ha bisogno di una prospettiva reale  e tangibile di risarcimento e riequilibrio nei poteri d'acquisto e nei livelli di vita.

Una visione semplicistica, questa? Forse, ma se l'Ulivo - o chi per esso - non taglia questo nodo gordiano del ridisegno di un blocco sociale anche a scapito dei poteri forti che stanno scaricando il velleitario Cavaliere (ormai più fonte di problemi che di soluzioni) la situazione non migliorerà granchè, se non a rischio di instabilità e conflitti forti.
Nell'apparente sommovimento che il crollo del berlusconismo sta causando, per ora gli elementi di continuità con la vecchia politica e la vecchia  economia - quella già dei fu democristiani - rischiano di tornare ad esser  prevalenti.
Finchè si continuerà, ritenendo che la sua funzione sia predominante e inevitabile nella società italiana, ad accreditare il centrismo di un potere che ha solo se glielo lasciamo maturare non mettendolo mai alla prova delle sue reali contraddizioni, il nodo non sarà sciolto.
Spazzato il pericolo di morir berlusconiano, riaffiorerà quello di defungere sottomessi ad una delle tante forme del trasformismo democristiano.
Forse, per sottrarvicisi, è già tardi. Forse, spero di no, per l'ennesima volta  allo sfacelo abbiamo contrapposto una uscita talmente moderata, timorosa e indefinita che gioverà più ad altri che a noi e, soprattutto,  ai cittadini che rappresentiamo.

Michele Casiraghi


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  8 luglio 2004