prima pagina pagina precedente




ECONOMIA E DINTORNI
Rendere flessibile il patto di stabilità?
Sì, ma peggio per noi
di Giacomo Correale Santacroce


Einaudi raccomandava ai suoi allievi di pensare ai conti dello stato come a quelli dell'economia domestica.
Infatti, è ben vero che una persona o anche un'azienda, specie se piccola, può fallire più facilmente e rapidamente di uno stato. Ma è anche vero che (vedi Argentina), nonostante tutti i possibili espedienti, anche per uno stato viene il momento della verità ed è un momento drammatico non per una, ma per milioni di famiglie e di aziende.
Ora l'Italia ha un debito pubblico pari al 106% del reddito prodotto in un anno da tutti gli Italiani (ossia del PIL, prodotto interno lordo), a fronte del 60% fissato dal patto di stabilità come limite considerato “ragionevole”, da non superare.
Perché un debito di quella entità è grave? In primo luogo perché rende difficile fare nuovi investimenti per lo sviluppo, in secondo luogo perché un'eventuale aumento dei tassi d'interesse imposti dal mercato potrebbe compromettere la stabilità del bilancio.
E' quindi evidente che l'Italia deve ridurre l'incidenza del debito sul PIL, e per far questo deve almeno rispettare l'altro vincolo imposto dall'UE, quello del disavanzo annuale che non deve superare lo “stupido” (in quanto non tiene conto della diversa situazione dei diversi paesi) limite del 3%. Dico almeno, perché le previsioni di crescita del PIL italiano arrancano al ritmo dell'1,4% nel 2004 e del 2,5% per il 2005.
In queste condizioni, come è possibile fare nuovi investimenti, senza incrementare l'incidenza del debito sul PIL? Le alternative sono:
  • far aumentare il reddito nazionale, e quindi il gettito delle imposte;
  • aumentare la pressione fiscale, facendo pagare di più a chi già le paga;
  • combattere l'evasione fiscale, facendo pagare le tasse a chi non le paga;
  • ridurre i costi di gestione dello stato;
  • liquidare parte del patrimonio pubblico, purché questo non produca maggiori danni in futuro (ad esempio vendendo le sedi dei ministeri per poi pagarne l'affitto, o privatizzando musei e litorali di valore inestimabile per l'attrattività, non solo turistica, del nostro Paese).
E' evidente che, a parte la prima alternativa che esamineremo dopo, le alternative preferibili sono quella di combattere l'evasione fiscale e quella di ridurre i costi di gestione dello stato a parità di prestazioni, migliorandone l'organizzazione e aumentandone la produttività, cioè facendo di più con meno.
Ma c'è chi, con ragione, osserva che occorre affrontare i problemi in modo dinamico e non statico. In particolare viene proposto di:
  • ridurre le tasse, con il che, secondo i proponenti, si ridarebbe slancio all'economia e quindi si realizzerebbe la prima alternativa (quella di far aumentare il reddito nazionale, quindi il gettito eccetera).
  • esentare le spese per investimenti dal limite del 3% fissato dal patto di stabilità per il disavanzo annuale, in quanto anche questi favorirebbero lo sviluppo futuro e quindi il riequilibrio del bilancio dello stato.
Per quanto riguarda la prima proposta, l'esperienza insegna che per funzionare essa dovrebbe essere reale e massiccia. Inoltre, non sempre il livello delle imposte costituisce il principale vincolo allo sviluppo. Infine, occorre valutare anche gli effetti negativi di una riduzione delle tasse, specialmente se essa va a sottrarre risorse ai servizi pubblici essenziali (scuola, sanità).
Il recente taglio dell'imposta sul reddito, che per la sua entità e per il fatto di essere compensata da aggravi di altre tasse può considerarsi ottimisticamente vicino a zero, non realizza la prima condizione (quella della entità rilevante) e quindi è inconsistente per gli altri aspetti.
Per quanto riguarda la seconda proposta (l'esenzione degli investimenti dal vincolo del 3% del disavanzo sul PIL, detta anche golden rule, sperimentata in Gran Bretagna) , soccorre ancora l'esperienza famigliare o aziendale: forse che potete comprare un nuovo frigorifero, o un nuovo computer, o una nuova macchina, o qualsiasi altra cosa ammortizzabile e promettente per il lavoro e la vita futura, senza tener conto del vostro vincolo di bilancio, cioè delle vostra disponibilità di denaro liquido?
In realtà, il disavanzo italiano è già sostanzialmente destinato solo ad investimenti (il bilancio delle spese correnti è pressoché in pareggio). Quindi porre il problema della flessibilità di questo vincolo espone l'Italia a farsi dire che, dato lo scarso aumento del suo PIL e l'entità del debito, il disavanzo ammesso per l'Italia dovrebbe essere inferiore al 3%, anzi al 2%!
In altri tempi gli stati ricorrevano all'inflazione, cioè stampavano moneta, per fare queste operazioni. Ma l'inflazione è stata giustamente definita la più ingiusta delle imposte, perché distrugge i risparmi delle categorie più povere. Oggi si sa che l'inflazione è come l'aspirina: una compressa ogni tanto fa bene, un barattolo al giorno no.
I fautori di queste politiche avventurose spesso si richiamano al grande economista John Maynard Keynes, che per superare la stagnazione che seguì al crollo del 1929 e rimettere in moto gli investimenti e l'economia USA propose il deficit spending, cioè una politica di bilancio in disavanzo.
E' un richiamo rozzo fatto da parte di cicale ignoranti. Dimenticano infatti (o non sanno) che Keynes, proponeva il deficit spending come misura anticiclica: cioè lo proponeva per i tempi di stagnazione o recessione, ma solo dopo aver accumulato, nei tempi di prosperità, le risorse necessarie. Keynes era uno che, per i tempi di guerra, proponeva che questa venisse pagata con le tasse e non con il debito o stampando moneta, proprio per evitare il contraccolpo inflazionistico al ritorno del tempo di pace.
Il deficit spending all'italiana, che si è prolungato per tutti gli anni ottanta giungendo al suo apogeo con la “Milano da bere ” di craxiana memoria, è la causa dell'accumulo dell'ingente debito pubblico che ci ritroviamo sulle spalle, e i cui effetti disastrosi stiamo ancora scontando.
Che fare allora?
Occorre che l'opinione pubblica sia informata che non esistono bacchette magiche e men che meno uomini della provvidenza. Cioè che occorre agire sui tempi lunghi, cinque o dieci anni almeno, con riforme ben finalizzate (aumento dei livelli d'istruzione, aumento delle spese per la ricerca, semplificazione della pubblica amministrazione e lotta alla corruzione, riduzione dei tempi di durata dei processi, lotta alla criminalità organizzata nel Mezzogiorno, riforma del sistema fiscale per renderlo meno “nemico” del contribuente eccetera). Tutto ciò contribuirà ad aumentare la capacità del “sistema Italia” di produrre reddito. Ma lo stesso Keynes, fautore dell'intervento dello stato nei momenti di crisi, avvertiva che “a lungo andare siamo tutti morti”. Occorre quindi agire subito. A mio parere le leve sono la lotta senza quartiere all'evasione fiscale e il “fare di più con meno” con la Pubblica Amministrazione, semplificando leggi e norme varie in modo da mettere in grado cittadini, aziende e associazioni non profit, istituzioni locali di dare i loro contributo al superamento del declino. Cioè di rimboccarsi le mani per ridare slancio al Paese.

Giacomo Correale Santacroce


in su pagina precedente

  12 gennaio 2005