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ECONOMIA E DINTORNI
Azienda: a che serve?
di Giacomo Correale Santacroce


In qualsiasi momento della nostra vita ci troviamo a dover fare i conti con una strana entità: l'azienda.
Un'entità che molti vivono come sgradevole, da evitare. Altrimenti non si spiegherebbero definizioni peggiorative come “partito-azienda”, o la ripulsa a trattare un ospedale, una scuola, un tribunale come “un'azienda”. O le iniziative dirette a promuovere delle “aziende etiche”, come se quelle normali fossero costituzionalmente soggetti immorali. E non si spiegherebbero infine le frequenti dimostrazioni di studenti contro una temuta strumentalizzazione della scuola alle esigenze delle aziende. Salvo poi lamentarsi perché non trovano lavoro, ovviamente in una azienda.
Io credo che questa repulsione derivi da una scarsa conoscenza di che cos'è un'azienda, o da una visione stereotipata e superata di essa. Vale allora la pena di chiedersi: cos'è l'azienda oggi, e a che serve?

La risposta sembrerebbe molto semplice: l'azienda è un insieme di uomini e mezzi per produrre certe cose, tangibili o no, che suscitano l'interesse di certe persone chiamate “clienti”.
Ma ecco che, al posto di questa definizione che sembra ovvia, ne vengono presentate altre più complesse. Se chiedete a molti manager perché lavorano, vi rispondono che lavorano “per produrre valore per l'azionista”, cioè per produrre non dei beni, ma il profitto che di quella produzione è uno dei risultati. O se rivolgete la domanda a molte persone comuni, o a certi politici che cercano il loro consenso, vi risponderanno che l'azienda serve “per creare occupazione”. Altri vi daranno (o eviteranno di darvi) altre definizioni, tra cui quella, ideologica, dell'azienda come strumento del capitalismo, o quella, speculare, di uno puro tramite per depredare il prossimo.
Il fine dell'azienda, cioè offrire prodotti o servizi che hanno valore di per sé diventa così un passaggio casuale, al limite non obbligatorio: si direbbe quasi che l'azienda sia considerata da molti superstiziosamente come una moderna, diabolica pietra filosofale da cui ottenere miracolosamente oro nelle sue diverse forme attuali.

E invece l'azienda serve proprio e soprattutto per dare agli uomini dei prodotti che gli consentano di vivere meglio. E al giorno d'oggi anche qualcosa di più.
Infatti, l'idea che l'azienda esista prima di tutto per “produrre valore per il cliente” si è fatta abbastanza strada nelle recenti teorie aziendali (anche se molto meno nei comportamenti reali). Ma oramai, com'è noto, si chiede molto di più all'azienda. Non solo che offra maggior valore al cliente, ma anche che lo faccia in modo altrettanto “valido”: ad esempio che non sfrutti i produttori delle materie prime o i lavoratori dei proprio fornitori, come è accaduto per la Nike con i suoi palloni prodotti in Cambogia o per le aziende produttrici di caffè; che i beni prodotti siano sicuri, sani e riciclabili; che l'azienda non renda invivibile l'ambiente in cui opera eccetera.
C'è chi ritiene che un'azienda che aspiri all'eccellenza debba crearsi, o entrare a far parte di un “sistema di lealtà” che dovrebbe soddisfare le esigenze sia interne dell'azienda, (“un buon posto per lavorare”) sia dell'ambiente di cui fa parte, costituito non solo dai suoi clienti, ma anche dai suoi fornitori, dalle comunità locali in cui agisce, dai suoi finanziatori eccetera.
Sembra facile , ma non lo è: perché questa concezione mette in evidenza che la finalità dell'azienda di creare valore è strettamente connessa con la distribuzione di questo valore: tra clienti, lavoratori, azionisti, finanziatori, fisco e altri al contorno. E questo determina fatalmente conflitti incessanti.

Eppure è provato che molte aziende, grandi o piccole, che sono riuscite a conciliare i conflitti creando una soddisfacente convivenza interna ed esterna, si sono dimostrate più longeve, superando per durata la vita dei fondatori e dei loro eredi, famigliari o manageriali.
Qualcuno ha negato la democraticità dell'azienda, perché autoritaria e non elettiva (se non dalla proprietà). Ma l'azienda non è una polis, è un'organizzazione strumentale, come qualsiasi altro ente pubblico o privato, come gli ospedali o i ministeri. Per certi aspetti, e con finalità specifiche anziché generali, come i partiti. I beneficiari della sua attività sono all'esterno di essa, e solo di riflesso dovrebbero esserlo coloro che la compongono, sperabilmente secondo le loro capacità strategiche e i loro meriti operativi.

Torniamo all'inizio: è allora veramente scandaloso se una scuola, un ospedale, un tribunale vengono gestiti come una azienda?
Se si pensa che scopo dell'azienda e della sua organizzazione sia quello di fare profitto, evidentemente sì. Ma se si pensa che il suo scopo sia quello di fornire a clienti, utenti, cittadini i loro prodotti o servizi nel migliore dei modi, si dovrebbe dire di no.
E a maggior ragione si dovrebbe dire di no se nella organizzazione interna e nei rapporti esterni un'azienda riuscisse a creare le condizioni per una visione condivisa, per un coinvolgimento e una possibilità di controllo da parte di tutti i suoi componenti, per una comune soddisfazione e motivazione ai risultati. In questo senso, per una gestione democratica.

Giacomo Correale Santacroce

P:S: A proposito, la parola italiana “lealtà” che ho usato è la traduzione un po' forzata del termine inglese “loyalty”. Ma quest'ultima deriva a sua volta dal latino “legalis”! Come dire che l'azienda dovrebbe essere leale, cioè legale, cioè essere parte attiva e responsabile del sistema dello stato di diritto, dello stato democratico. O c'è forse qualcuno che ritiene ancora che l'azienda sia per sua natura una zona franca, in cui tutto è permesso, e quindi da reprimere o esorcizzare?


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  5 febbraio 2005