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Europa. Il cuore oltre l'ostacolo?
di Michele Casiraghi


Oggi si vota il referendum sulla Costituzione europea in Francia, tra sondaggi contrastanti ma che tendono generalmente a ipotizzare una prevalenza del no. Nel caso l'esito ipotizzato si riveli esatto, ci troveremo di fronte a tentativi di minimizzarlo da parte di alcuni e di enfatizzarlo da parte di altri.
Io penso che - invece - dovrebbe semplicemente spingerci tutti a considerare meglio come i processi storici siano un continuo susseguirsi di passi in avanti e indietro, e la retorica dello sviluppo automatico progressivo piuttosto inutile, soprattutto ora.

L'integrazione
Il processo di allargamento dell'Europa è stato, fin dalla sua costituzione, complesso, con diverse sfumature e intenzioni che si sono concretizzate sovente in incentivi all'accelerazione o parziali frenate.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la componente ideologico/politica - necessità di evitare ulteriori conflitti - era prevalente e coincidente in gran parte con le attese - anche non esplicitate - dei cittadini.
Derivava dalla consapevolezza che i conflitti, in gran parte dei casi, nascono prevalentemente da insufficienti integrazioni e "solidarietà" dei mercati, che innescano o esaltano, poi, attriti al livello culturale e sociale.
Le ideologie per giustificare o attizzare questi attriti sono sempre lì disponibili e, dunque, la cosa migliore sarebbe evitarli.
Per lungo tempo, la gestione dell'Europa ristretta ha pensato di poterlo fare - anche riuscendoci - quasi a prescindere dal coinvolgimento sostanziale iniziale esplicito delle popolazioni rappresentate. L'iniziativa elitaria partiva, il consenso seguiva: ma poteva seguire perchè l'elite rappresentava le attese efficacemente.
Grazie a questa strategia si è ritenuto, in tal modo, di render praticabile la convinzione unitaria pre-esistente a livello politico.
Si è trattato di un disegno forse persino necessario, sufficiente per i tempi nei quali si è svolto, ma oggi precario.
Non diversamente che in tutti i processi di globalizzazione, l'integrazione ha finito per riguardare i mercati, i capitali, persino le politiche militari ma si è in gran parte arrestata di fronte al tema dei diritti, affrontandolo in modo palliativo.
Non per malafede o mancanza di volontà, penso, ma proprio anche per la difficoltà di affrontarlo.
Si è pensato - e non del tutto a torto, per un certo periodo - che l'integrazione economica generasse una omologazione dei diritti.
In realtà questo accade ed è accaduto, ma a patto che i diritti civili, del lavoro eccetera siano abbastanza omologabili, i dislivelli non troppo forti e non tali da consentire ai mercati di agire - per propria logica - in direzione addirittura opposta.
Se queste condizioni non ci sono, le contraddizioni che si scatenano possono anche essere incontrollabili e produrre contrasti ingovernabili sia nei paesi della vecchia Europa che in quelli della nuova.
Mentre il presupposto dei diversi governi e sistemi, evidentemente, è che  la transizione - se deve avvenire - avvenga entro un quadro governabile che rispetti le differenze, i tempi necessari e a ridurle senza mettere in discussione più del necessario e del sopportabile gli equilibri sociali e politici.
Nessuno, in altri termini, vuole immolarsi al moloc europeo quando ragioni ideologiche consistenti o almeno evidenti non ci sono più.
Non lo vogliono tutte le forze in campo, non solo i singoli cittadini.

La riunificazione tedesca
E' lì a dimostrarci proprio che, se i dislivelli sono troppo forti tra aree geografiche ed economiche (persino interne alla stessa nazione!) difficoltà e costi dell'integrazione si fanno altissimi, sono addirittura in grado di minare o quantomeno rallentare lo sviluppo complessivo. Le vicende elettorali  (difficoltà gravissime di Schroeder) e i sondaggi più recenti (ripensamenti in negativo sui tempi e addirittura l'opportunità della riunificazione) sono sotto gli occhi di tutti.
La Germania da treno motrice, non solo economico,  dell'Europa è diventato una specie di tradotta incespicante.
Ora il problema si ripresenta in senso più ampio, tanto per la globalizzazione mondiale che per l'allargamento europeo.
Aldilà delle strumentalizzazioni politiche che ciascun partito può farne ad uso interno, ci sono quindi contraddizioni reali, non facilmente risolvibili e, soprattutto, assolutamente irresolubili se qualcuno pensa di poterle bypassare (e sono in tanti, anche in Italia) sorvolando sulla necessità di reindividuare le ragioni di massa, condivise dai cittadini, della costruzione europea.
Ci vorrà tempo per farlo, e battute d'arresto e passi indietro o in avanti meno lunghi dal previsto: ma le forzature non portano più da nessuna parte, anzi, potrebbero portare a fallimenti ancora più gravi, perchè il futuro assetto europeo non diventa tale solo per averlo auspicato o annunciato.

I nuovi arrivati
I paesi appena entrati o destinati ad entrare sollecitano contraddizioni che non posson esser superate solo col filtro del volontarismo soggettivo, del richiamo allo spirito europeo e dell'ideologia, sinora praticato abbondantemente.
Le disuguaglianze nei modelli istituzionali, sociali, di mercato, economici esistenti stridono, forse, sono oltre i limiti dell'attualmente omologabile e contrastano con i tempi d'attuazione previsti (troppo corti?).
Vi sono, peraltro e al contrario, differenze che possono esser urgentemente appetibili per chi voglia fare delocalizzazione a buon marcato e reggere in tal modo più facilmente la competizione mondiale globale (sta già accadendo da tempo); così come ci sono anche differenze nei livelli di vita e di diritto individuale che, se messe in discussione, generano timori e resistenze più che giustificabili tanto dentro i paesi aderenti di antica data che entro  i nuovi o quelli in attesa.
Io non so se si sia fatto il passo più lungo della gamba, e forse - se lo si è fatto - è parso necessario farlo per invetarata prassi politica. So però che quel passo, però, non può prescindere dalla costruzione in parallelo di un consenso civile diffuso.
Il non ricorso ai referendum perchè li si potrebbe perdere (si invocano puerilmente le legislazioni nazionali a difesa della impossibilità di chiamare i cittadini a un atto concreto e univco, già di per sè stesso unificante più di mille discorsi!) , indica semplicemente una debolezza ormai insopportabile per lo stesso processo di unificazione: non si fa una Costituzione senza che i cittadini la possano approvare (Nel senso e nello spirito, non nei dettagli! E la formulazione del quesito referendario sottoposto ai francesi dimostra che è facilmente possibile...).
O, se la si fa "a prescindere", lo si fa a rischio dell'intero processo, poichè proprio la stessa non acclarata e preventiva intenzione di avviare questo processo di partecipazione democratica induce in partenza a scrivere, più che una costituzione, un pleonastico trattato commerciale nel quale anche qualche sparuto valore fondamentale finisce per essere irriconoscibile o poco leggibile.
Non ci si lamenti, dopo.

Un equilibrio da costruire
L'allargamento dell'Europa sollecita una omologazione che va consapevolmente pagata, com'è storicamente sempre stato, esattamente come ogni rischio "imprenditoriale": e il costo è crescente con il crescere delle disomogeneità e delle differenze, dei dislivelli di ogni tipo.
Non solo la parte più avanzata dovrà trovare un equilibrio al proprio interno che renda accettabile e giustificabile questo costo, che almeno nell'immediato si traduce spesso in una contrazione dei livelli di vita e di consumo; persino i paesi entranti - come dimostra la trattativa in atto sulla ripartizione dei fondi a loro destinati - dovranno "accontentarsi" di avviarsi con molta gradualità verso nuovi diritti civili e addirittura, in taluni casi, potrà anche accadere il contrario, e cioè che alcuni diritti si contraggano nel concreto, specialmente nel mercato del lavoro o nel cosiddetto welfare sopravvissuto malamente.
Che - cioè - la delocalizzazione industriale e delle risorse li comprima, o introduca ulteriori dislivelli interni alla qualità di vita e al tessuto sociale del paese.
Non sono processi socialmente indolori, sono equilibri da costruire nel concreto, consapevoli della loro delicatezza, della possibilità di innescare processi destabilizzanti in un senso o nell'altro.
Questa costituzione - se la leggiamo con pazienza - non lo fa o lo fa in modo molto indefinito e confusionario.
E' meglio che niente? Forse, ma non si può pretendere di fondare una entità sovranazionale cui il cittadino europeo - in parte ancora da costruire come identità antropologica nuova - si affidi a scatola chiusa così com'è stato per il passato.
L'allargamento è grande, le culture e le differenze stridono, se le si forza oltre i limiti possibili realisticamente, si possono anche determinare fratture che troveranno, nei diversi paesi, rappresentanze politiche corpose, convinte e altamente rissose.
Insomma: se all'integrazione dei mercati  e della finanza e alla libera circolazione delle merci e dei capitali non corrisponde una integrazione ravvicinata e palpabile dei diritti e la libera circolazione dei cittadini (in tutti i sensi) il processo potrebbe anche implodere.
Esistono già le risorse, economiche e civili, per questa integrazione? E se no, a che titolo vien chiesto agli europei di gettare il cuore oltre l'ostacolo se di quel cuore condividono troppo poco?

Il propulsore
Oggi i risultati del referendum francese ci diranno qualcosa al proposito: qualsiasi essi siano, la politica non dovrà aver paura di leggerli per quel che rappresentano, e cioè contraddizioni e riflessioni dei diretti interessati alla costruzione della casa comune in un modo piuttosto che nell'altro.
Quel che fa paura - invece - perchè può esser causa di fallimenti più gravi che semplici aggiustamenti del tiro, dei tempi, delle strategie, è l'ostinazione a considerare quanto avviene guardandolo solo con le vecchie logiche.
Chi non ci sta, deve imparare a starci, o escludendolo dal processo decisionale o a suon di reiterati referendum, sembrano dire i vertici politici filoeuropeisti.
Non è così: c'è oggi un europeismo consapevole ma critico che non può esser ricondotto a puro conservatorismo, perchè non è puro conservatorismo chiedersi qual'è il prezzo che, come cittadino democratico,  si deve a pagare a processi di costruzione istituzionale sociale, economica che appaiono meno meditati del necessario.
Oggi, in altre parole, se manca la propulsione dei cittadini non manca un optional, come poteva esser qualche decennio fa: perchè è questa la forza trainante, quando ideologie ed economia non lo sono più.
Questo è il cuore del cuore che si vuol gettare oltre l'ostacolo, per poi raggiungerlo.
Ma un cuore, per esser vivo, bisogna che abbia ragioni, desideri, illusioni anche: qualcosa che lo faccia pulsare forte.
Che non è probabilmente, oltretutto, nè la faccia di Chirac o di altri leader europeisti disponibili sul mercato.

Michele Casiraghi


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  29 maggio 2005