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ECONOMIA E DINTORNI
Il giardino d'Europa: è ancora possibile?
di Giacomo Correale Santacroce


Dice un operaio di Livorno citato da Giovanni Sartori nel suo articolo sul Corriere della Sera di domenica 3 luglio 2005: se il costo del lavoro in Cina è dieci volte inferiore a quello italiano, a cosa serve ridurre quest'ultimo di uno-due punti? Ha perfettamente ragione.
Allora, cosa si può fare? Evidentemente, occorre un cambio di prospettiva globale: capire la “struttura” specifica della realtà italiana, affrontarla in modo “sistemico” e non occasionale, per “riformarla” in modo che duri nel tempo.
Non serve allarmarsi o consolarsi su singoli dati apparentemente negativi o positivi, ma bisogna cercare di collegarli tra loro in modo diverso dal passato, anche a rischio di qualche ingenuità che la critica aiuterà a rivelare.
Un po' di esempi?
La TV, principale fonte di disinformazione italiana, ci aggiorna periodicamente con un tono depresso sulla continua diminuzione dell'occupazione nella grande industria. Ebbene? Può trattarsi di un processo inevitabile, “strutturale”, perché le grandi industrie diventano più piatte, meno burocratizzate, si articolano in medie imprese più efficienti. O perché vi è un'onda lunga, inesorabile, di passaggio da una economia industriale a una economia di servizi, evoluzione rispetto alla quale, secondo alcuni analisti internazionali, l'Italia è anzi in ritardo. Se poi nel complesso l'occupazione è aumentata, qual'è il problema? Evidentemente, si tratta di capire la causa e la natura di questa apparente contraddizione.
Altro esempio: nell'arco di tre anni, dal 2001 al 2004, la quota dell'Italia nel commercio mondiale è scesa dal 4,6% al 3,1%. Una diminuzione decisamente allarmante, ma da analizzare con freddezza. Intanto, nel 2004 le esportazioni italiane sono aumentate del 6,1% in valore, sia pure contro un aumento del 21,1% del commercio globale. Chi fa la parte del leone di quest'ultimo aumento sono le solite Cina e India. Certo, il fatto che Francia e Germania riescano a conservare le proprie quote sul commercio mondiale può significare che per loro Cina e India non sono solo una minaccia, ma anche una opportunità che l'Italia non ha colto. Ma è anche da notare che settori importanti per il nostro Paese come la meccanica e l'alimentare hanno tenuto il passo nel loro complesso con la crescita internazionale (i nostri formaggi vanno alla grande).
Passiamo ad altro, ad altri aspetti più “strutturali”. Si dice e ridice che uno dei guai del nostro Paese è costituito dal fatto che le imprese sono troppo piccole, che “bisogna aiutarle a crescere”. Si parla anche, in modo involontariamente offensivo, di “nanismo”. A parte il fatto che non esiste nessuna cura che possa costringere dei nani, o dei pigmei, o a diventare degli svedesi. Ma soprattutto mi sembra che non si rifletta abbastanza sul fatto che, dalla disfida di Barletta ai distretti industriali, passando attraverso la beffa di Buccari e i ragazzi di Via Panisperna (Enrico Fermi e compagni), il meglio dell'Italia è molto spesso stato realizzato da piccole squadre. Mentre per le grandi strutture, dall'esercito italiano alla “grande industria”, abbiamo assistito spesso a un seguito di fallimenti e di figuracce a cui purtroppo corrisponde una pessima immagine internazionale dell'Italia (per fortuna compensata da giudizi positivi di altro tipo). Si dice spesso: “Dobbiamo fare squadra!” Le squadre già ci sono. L'unica cosa che si potrebbe e dovrebbe fare sarebbe attuare il concetto secondo cui (R. Normann) “piccolo è bello, purchè su larga scala”.
Salto di palo in frasca: recentemente Romano Prodi - di cui sono un fedele seguace fin dai tempi della sua gestione dell'IRI e delle sue magistrali lezioni di economia sul “Tempo delle scelte” - lamentava che in Italia si laureano pochi ingegneri. Ora, non so se un giovane che voglia iscriversi a ingegneria trovi le porte chiuse per mancanza di offerta universitaria in questa branca del sapere (cosa che non credo), oppure se i giovani italiani preferiscono altri studi. Ma è proprio vero che è più importante avere più ingegneri che medici, avvocati, esperti di turismo, o di beni culturali, o della comunicazione? Ad esempio, la globalizzazione pone una forte domanda di regole, che giustifica un fabbisogno di giuristi. Ho sempre pensato che i giovani, nell'interesse loro e della società, non debbano essere indotti a scegliere le facoltà che, sulla carta, offrono maggiori opportunità di lavoro, ma quella per la quale sono più portati, fosse anche filosofia.
Vado quasi a caso: l'energia. Sartori, nell'articolo citato, attribuisce a un “imprevidente referendum”, quello del rifiuto dell'energia nucleare, il fatto che l'Italia abbia un costo dell'energia superiore a quello di altri paesi. A parte che non ricordo altro referendum che si sia svolto in Italia con tanta consapevolezza deliberativa, siamo proprio sicuri che sia più conveniente produrre energia in casa propria, magari con investimenti e problemi ambientali ingenti anche se nascosti sotto il tappeto, invece di acquistarla sul mercato internazionale? Piuttosto, perché l'Italia è ultima nell'uso di energia solare? Recentemente in Francia (per la precisione in Provenza, regione turistica per eccellenza. E' un caso?) è stata avviata la costruzione di un impianto sperimentale per la produzione di energia solare. Cosa si fa in Italia in proposito?
Oso avanzare domande su un altro intervento di Prodi. In una recente intervista a la Repubblica (5 luglio 2005, p.23), viene ripetutamente usato il termine “industriale”, da tempo andato in disuso, al posto di quello, che a me piace di più, di “imprenditore”. E si riparla di “politica industriale”, di cui Prodi dice di non aver mai ritenuto che “fosse una parola sporca”. Non ne dubito, basta chiarire che sarà una cosa molto diversa da quelle pre-anni novanta. Ma siamo sicuri che il bandolo della matassa stia nell'industria, e non piuttosto nel cambiamento del sistema economico complessivo e nelle condizioni della convivenza civile?

Potrei andare avanti a lungo con domande di questo tipo, che rivolgo prima di tutto a me stesso non disponendo di dati sufficienti per rispondermi in modo “sistemico”. Ma dove voglio andare a parare?
Io vorrei verificare la consistenza di un'idea che mi frulla in testa da tempo: che se si vuole un ritorno dell'Italia sul palcoscenico internazionale, occorre partire dall'antica massima greca “conosci te stesso”. Capire che tipo di “animal spirits” sgorgano spontaneamente nel nostro Paese, quali vocazioni spontanee, onde portanti, forze guida, diverse da quelle di altri paesi e specifiche del nostro, occorre cavalcare. Smettendola di disprezzare o sottovalutare certi punti di forza apparentemente poco prestigiosi, ma al contrario partire anche da essi per agevolarli, rafforzarli, integrarli, valorizzarli, senza comprometterne la vitalità con la pretesa di pianificarli, coordinarli, o con altre invenzioni burocratiche. Ad esempio, ho sentito criticare il fatto che le regioni svolgano iniziative di promozione turistica all'estero. A parte il fatto che il turismo rientra tra le loro funzioni, non vedo che cosa ci sia di male, anzi (lo fa anche la Catalogna, e numerosi comuni e agenzie di viaggio)! Il problema è che lo stato italiano non è capace di potenziare a monte queste iniziative, secondo una corretta interpretazione del principio di sussidiarietà. Così come non è capace di schiodare l'Italia dall'ultimo posto come luogo elettivo d'insediamento di investimenti diretti esteri.
A questo proposito e più in generale, non è stato affermato da parte di un grande economista straniero (John K. Galbraith, mi sembra), prima che l'espressione diventasse un retorico e fatuo luogo comune, che il nostro Paese dispone di vasti “giacimenti culturali” e, aggiungerei, naturali, comparabili con certi giacimenti di materie prime strategiche presenti in altri paesi? Non potrebbe e dovrebbe essere per l'Italia la valorizzazione di questi giacimenti, anche (ma non solo) attraverso il turismo, ciò che per la Gran Bretagna è la finanza, cioè la componente principale e trainante del nostro terziario avanzato e delle altre attività produttive? Tra l'altro il turismo è un settore che può compensare a livello di bilancia dei pagamenti eventuali, mi auguro solo congiunturali, squilibri della bilancia commerciale.
Non era l'Italia il “giardino d'Europa”, meta obbligata di viaggiatori di grande fama?
Non a caso ho citato prima la Provenza, dove il fatto di essere “un buon posto per vivere” ha fatto sì che diventasse anche “un buon posto per lavorare”. Con la fine dell'industria delle ciminiere, non è finita anche l'era della contrapposizione tra industria e ambiente, e iniziata la prospettiva di un loro sostegno reciproco e duraturo?
Non potrebbe diventare l'Italia una grande Provenza protesa nel Mediterraneo?

Giacomo Correale Santacroce


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  12 luglio 2005