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ECONOMIA E DINTORNI
Cultura d'impresa. Cosa vuol dire ?
di Giacomo Correale Santacroce


1. Impresa e azienda. Si parla spesso della necessità di una “cultura d'impresa”, come di una delle vie per favorire il rilancio del nostro Paese.
Da tempo si levano voci critiche sul modo con cui molti imprenditori gestiscono le proprie aziende, con l'attenzione rivolta esclusivamente ai risultati a breve termine e ai propri interessi personali (una sorta di “familismo amorale” applicato all'impresa), con frequenti escursioni nella speculazione finanziaria, trascurando gli investimenti necessari per lo sviluppo dell'azienda,.
Ma che cos'è veramente la cultura d'impresa? Riguarda solo gl'imprenditori, i vertici dell'azienda? O è una questione di competenze manageriali, certamente essenziali per il successo dell'impresa? O piuttosto è qualcosa di più, che dovrebbe interessarci tutti, e in particolare i giovani che oggi studiano e che domani dovranno costruirsi un futuro di vita e di lavoro?
Per chiarirci le idee, mi sembra opportuno partire addirittura dal vocabolario, da che cosa s'intende per “impresa”.
Nei dizionari, la parola ha due significati: Il primo, di un'avventura che richiede grande coraggio, rischio e sacrificio, per conseguire un risultato straordinario e fortemente motivante. Il secondo è sinonimo di “azienda”, come organizzazione economica finalizzata alla produzione di beni e servizi.
C'è una grande differenza tra i due significati? Se ben si guarda, no. Se mai è una questione di grado, nel senso che una impresa-azienda normalmente ha obiettivi meno entusiasmanti di una impresa ricca di emozioni. Esplorare il Polo Nord o circumnavigare il globo è ritenuto molto più importante che fondare, che so, una Ikea o una McDonald, o semplicemente inventarsi un negozietto di successo, o addirittura svolgere il proprio lavoro quotidiano come se ogni giorno riservasse qualcosa di nuovo.
È indubbio che nel corso della loro vita molte ”aziende” perdono il senso della “impresa”. I “padroni”, e ancor più i figli dei fondatori, spesso la vivono come una semplice e statica fonte di reddito inesauribile. E nella visione dei collaboratori meno coinvolti nelle decisioni, essa diventa sinonimo di un'attività ripetitiva, di un sistema calato dall'alto che scoraggia l'autonomia e la creatività individuale, di un luogo di alienazione. Non è strano allora che, specie per un giovane, una prospettiva di lavoro di questo tipo sia poco allettante.
2. Cultura d'impresa. Se a questo punto abbiamo un'idea un po' più chiara del termine “impresa”, cosa può voler dire allora, “cultura d'impresa”? Cosa c'entra la cultura con una impresa che spesso “degenera “ in azienda?
La cultura è il gusto della conoscenza. Ebbene, difficilmente al giorno d'oggi è possibile creare una nuova impresa e farla poi prosperare se non si ha il gusto di apprendere continuamente. In un certo senso, nessuno come un imprenditore o aspirante tale può oggi fare a meno di essere un “uomo di cultura”. Il modello, quanto mai attuale per l'irruzione della Cina nei mercati mondiali, viene subito in mente: Marco Polo.
Ma un imprenditore, o chi comunque vive attivamente la vita di una impresa, non è un filosofo: non ama la conoscenza per la conoscenza. L'ama per decidere e per fare, per creare qualcosa di nuovo che abbia un valore, economico e non solo economico.
A questo punto, potremmo ritenere che “cultura d'impresa” sia sinonimo di “cultura imprenditoriale”, come cultura dell'innovazione e del cambiamento.
Tuttavia oggi l'offrire ai clienti un nuovo oggetto di desiderio, o il farlo meglio per renderlo meno costoso, non esaurisce più i compiti dell'impresa. Oggi all'azienda viene richiesta una maggiore lungimiranza e larghezza di vedute, cioè una capacità di prendersi cura di un futuro non immediato e di ciò che accade intorno all'azienda, un intorno che è locale e globale insieme.
Da chi opera in azienda, e in primo luogo da chi ne è il proprietario o la dirige, ci si attende che pensi all'azienda come a qualcosa che debba crescere e durare a lungo, possibilmente (cosa oggi abbastanza rara) più a lungo della vita di un uomo.
Ci si attende quindi che egli si preoccupi più della redditività di lungo termine dell'azienda piuttosto che dei guadagni di breve termine, cioè di una redditività che vada di pari passo con il vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti e quindi con la soddisfazione dei clienti, piuttosto che di un utile immediato, o addirittura di manovre finanziarie all'insegna del “prendi i soldi e scappa”.
Inoltre, oggi da una azienda non ci si attende più soltanto che essa offra al mercato un prodotto o un servizio sempre migliore e a prezzi sempre più bassi: si vuole anche che i metodi e i mezzi impiegati per produrli rispettino certe regole, abbiano cioè a loro volta un valore adeguato per tutti coloro che hanno a che fare con l'azienda: ad esempio che i salari e le prospettive di crescita per i dipendenti siano adeguate, le condizioni di lavoro dei propri fornitori siano rispettose dei diritti umani, l'ambiente in cui la produzione si svolge non venga compromesso ma anzi riceva dall'azienda un contributo al suo miglioramento.
Qualcuno forse sorriderà e chiederà: ma perché chi opera in azienda dovrebbe preoccuparsi di tutto ciò, piuttosto che del risultato economico immediato? La risposta è che lungimiranza, ampiezza di vedute e responsabilità sono sempre più riconosciute e premiate dal mercato. Inoltre nelle economie più progredite si vanno sempre più diffondendo norme di comportamento rigorose (norme sulla compatibilità ambientale, tassazione delle rendite, leggi contro la criminalità finanziaria eccetera) che penalizzano i comportamenti miopi, irresponsabili o addirittura predatori da parte degli operatori economici.
3. Distruzione creativa. Nel fare queste riflessioni, non possiamo però dimenticare la definizione che il grande economista J. Schumpeter diede dell'innovazione, quando ne mise in luce gli effetti dirompenti, tanto da chiamarla “distruzione creativa”. Spesso un nuovo prodotto o un nuovo metodo di produzione elimina i precedenti, una azienda incapace di rinnovarsi viene soppiantata da altre più dinamiche, con la distruzione di posti di lavoro e i conseguenti riflessi sulla vita delle persone coinvolte.
Il processo di decostruzione e ricostruzione di aziende, di interi settori, di aree economiche procede negli ultimi anni con un ritmo molto più accelerato che nel passato.
Questo obbliga tutti i protagonisti dell'azienda ad acquisire la capacità di convivere con l'incertezza, e di essere predisposti al cambiamento. Ebbene, anche queste capacità di fronteggiare attivamente il cambiamento fanno parte della cultura d'impresa. (*)
Naturalmente, queste capacità sono necessarie prima di tutto per chi è alla guida di un'azienda. Si dovrebbe del resto supporre che chi, per vocazione o esperienza, è dotato di spirito imprenditoriale, abbia tra i suoi requisiti il gusto del cambiamento e del rischio.
Ma la maggioranza delle persone tende a preferire la stabilità al cambiamento. Molti sono disposti a rinunciare a maggiori prospettive di benessere in cambio di una maggior sicurezza e tranquillità. Purtroppo però, oggi il cambiamento è la regola ed ha ritmi più serrati che nel passato. Tutti quindi dovranno adeguarsi a questa nuova realtà, imparando ad anticipare e a gestire il cambiamento e il rischio, con l'augurio che le istituzioni pubbliche provvedano a loro volta a creare sistemi sociali capaci di rendere meno gravoso e anzi più motivante il cambiamento. Probabilmente le nuove generazioni sono già in qualche misura predisposte ai frequenti cambiamenti delle regole del gioco (come nei nuovi giochi di abilità, o nell'uso degli strumenti informatici e telematici).
Sarà sempre meno possibile considerare l'azienda semplicemente come la fonte di un reddito sicuro a fine mese, capace di assicurare al dipendente un certo benessere e la soddisfazione dei propri desideri al di fuori del lavoro, in cambio di un una attività lavorativa meno gratificante.
Ognuno dovrà continuamente “guardarsi intorno”, sviluppare delle antenne per valutare i comportamenti e le prospettive dell'azienda in cui trascorre molte ore della propria vita. Per definire questa capacità di contribuire al successo della propria impresa, ma anche di valutarne le prospettive in rapporto ai propri obiettivi e alle proprie scelte di vita e di lavoro, è stato creato il termine “intraprenditorialità”.
Cultura imprenditoriale, cultura manageriale e intraprenditorialità, tre aspetti che nel loro insieme contribuiscono a formare la cultura d'impresa.

Giacomo Correale Santacroce


serendipità

(*) Questa capacità è stata definita “serendipità”, da una leggenda secondo la quale i tre principi-filosofi di Serendip (l'attuale Sri Lanka), posti di fronte a difficili problemi pratici e a cambiamenti imprevedibili, riuscirono ad affrontarli con spirito positivo, cambiando strategia e traendo anzi vantaggio dalle nuove situazioni.


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  17 settembre 2005