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I sette giorni di Natale
di Manuela Faccani


Il Calendario dell'Avvento

Il settimo giorno di Natale - Il Calendario dell'Avvento
Manca una settimana a Natale. Una volta i Natali cominciavano molto prima. Cominciavano più o meno a metà novembre, quando si iniziava a preparare il Calendario dell'Avvento. Con le bambine si studiava, ogni anno, qualcosa di originale - si aborriva il déja vu, il ripetitivo. Quindi ogni anno un nuovo sforzo di fantasia per inventare casette, figurine, finestrelle, ognuna delle quali, una volta aperta, seguendo lo scorrere dei giorni, consegnava il suo tesoro - un cioccolatino di solito. Le bambine ben sapevano che dietro ogni finestrella si celava il loro premio; ma, più che teutoniche, rimandavano alla sera, prima di andare a letto, il piacere di aprirla. E io non finivo mai di stupirmi per questa loro resistenza alla seduzione; una resistenza, e una serietà possibili solo in un gioco. Chè il gioco da bambini è terribilmente serio, di solito.
Oggi non si fa più il calendario dell'Avvento. Loro son troppo grandi per i cioccolatini, e io troppo vecchia per non sentirmi rabbrividire al veder sottolineati i giorni che scorrono.


I regali

Il sesto giorno di Natale - I regali
Poi veniva il tempo per fare i regali ai nonni. “Fare”, non “comprare”, e qui stava il bello. Il “fare” comportava un progetto, che a volte ci portava via parecchie sere di congetture, prove e discussioni. I primi anni, quando l'età non permetteva imprese più ardue, erano strofinacci da cucina dipinti con le verdure. Se non lo avete mai fatto, non potete sapere quanta poesia c'è nelle verdure; un cespo di insalata tagliato molto basso, intinto nel colore e poi pressato con decisione sulla stoffa, diventa un'azalea degna di principesche ville. La cipolla sboccia in una rosa, il sedano è ridente, la patata.... beh, in una patata si possono ritagliare le forme più curiose. Ma se siete fortunati e vi viene in mano una patata con qualche protuberanza naturale, tagliatela a metà; è sicuro che vi uscirà un'ocarina. Se qualcuno sorridesse a queste ingenuità, pensi a quante volte, da ragazzi, abbiamo fatto a gara a cercar forme nelle nuvole, giganti, orsi, auto da corsa; forme che non sono nelle nuvole, ma dentro di noi, se sappiamo cercarle. E allora perché non cercarle anche in un ritaglio di verdura?
Nel corso degli anni abbiamo scalato vette più alte, e abbiamo riempito la casa dei nonni di découpage, di sculture in pasta di pane e dipinte con le tempere, e soprattutto di agende, perché il nonno, da quando lo conosciamo, tiene un diario, e sera per sera annota quel che gli accade. E non c'è un giorno, in cui non accada qualcosa. Usavamo agende qualunque, di quelle regalate da una qualunque banca, rivisitate e rivestite in tutte le forme e con tutti i materiali: dalle foglie d'autunno, alle notizie dei giornali, ai gusci d'uovo. Una collezione di agende d'autore, fa bello lo scaffale del nonno.


L'albero di natale

Il quinto giorno di Natale - L'albero di natale
Sono nata nel cuore della Romagna, da una famiglia di comunisti; non è vero che mangiano i bambini, ma di preti facevano pane e companatico. Per cui non ho mai avuto un presepio e, quello che è incredibile, non ricordo di averne sentito la mancanza. Del resto in casa dei miei genitori Natale era una festa molto striminzita, non tanto per la mancanza di soldi, quanto per la mancanza di fantasia. Sarà per questo che quel vuoto l'ho poi colmato con una sovrabbondanza di simboli e di personaggi fantastici, mutuati in un incosciente e giocoso sincretismo dalle tradizioni più diverse, nonché dai film di Walt Disney. E state pur certi che nei giorni precedenti il Natale, casa mia era tutto un pullulare di gnomi e di folletti che spiavano dai davanzali, e di fate che ballavano in cerchio al suono degli scacciaspiriti e di Mazapegul che spegnevano dispettosi le candele e di renne volanti che facevano un giro di ricognizione sui tetti (non si sa mai...).
Ma è l'albero, il centro della casa. Si incominciava andandolo a comprare in piazza, dove lo stesso alberivendolo ci ha accompagnato, invecchiando, negli anni. Se ne valutava la forma e le proporzioni, piegando un po' la testa, in posa da intenditori. Sapevamo con esattezza tutto quello che vi andava appeso, che è poi tutto quello che serve ad un albero per diventare uno scintillante, sontuoso, sovrabbondante, ALBERODINATALE.
Non basta certo attaccare qualcosa ad un albero, per trasformarlo in Alberodinatale. Ci sono alberi sfortunati che cadono in mano ai vetrinisti e che languono addobbati di palline tutte dello stesso colore – “così fa più fine” – o di nastri; altri, ahiloro, hanno solo pacchetti attaccati ai rami (che incompetenti, i pacchetti vanno “sotto” l'albero, non “sopra”!) . Ad altri ancora capita di cadere in mani che odiano gli Alberidinatale, e così sbuffano per tutto il tempo, facendoli e disfacendoli.
Un vero Alberodinatale deve invece venir addobbato con decori tirati fuori, con una ben precisa liturgia, da una valigia che per tutto l'anno dorme accucciata sopra un armadio. Ogni decoro ha una storia, e prendendoli in mano, con infinita cura, le bambine se la raccontano, perché questa storia deve venir ricordata. A volte le decorazioni diventano vecchie, perdono brillantezza, o qualche pezzo; ma quando è il momento di buttarle si trova sempre una buona ragione per non farlo, e così un posticino, magari un po' più nascosto, sull'albero si trova sempre. Perché un vero Alberodinatale, è molto democratico e un po' onnivoro. E siccome ogni anno i negozi si riempiono di nuove suggestioni, e come si fa a lasciar passare un Natale senza almeno aggiungere una pallina all'albero, la valigia rischia ormai di scoppiare, e l'albero, alla fine della giornata piega i rami in basso ma, stoicamente, resisterà fino all'Epifania.
Quando è tutto ben disposto, e si mescolano sui rami luci e colori, plastica e vetro, oro e argento, stoffe e pizzi, fino a non poterli più distinguere, allora è il momento del tocco finale: l'accensione delle luci. Ogni anno c'è sempre un breve piccolo momento di suspence, un respiro inconsciamente trattenuto - funzioneranno le luci? Perché, naturalmente, un vero Alberodinatale non può stare senza luci. E quando, ogni anno, funzionano, un lieve sibilo di sollievo scappa dalle labbra di tutti. Quelle luci non si spegneranno più, fino all'Epifania.
In tutto questo tempo, naturalmente, la nutrita schiera di gnomi e folletti che popolava la casa in quei giorni, ha dato, ognuno a modo suo una mano.... chi suggerendo la posizione di una pallina, chi criticando un accostamento di colore, chi abbassando un ramo proprio all'altezza della più piccina, per farle appendere il Babbo Natale sulla slitta che le piace tanto. Naturalmente, è sempre colpa del Mazapegul, se una pallina, conservata per tutti questi anni con tanta cura, stavolta cade e, irrimediabilmente, si rompe.


Le decorazioni

Il quarto giorno di Natale - Le decorazioni
A quei tempi, come dicevo, la mia casa era popolata da ogni sorta di fantastiche creature. Sarà per questo che sentivamo il bisogno di ricreare un ambiente che fosse loro congeniale; e dove possono vivere, se non in un mondo fatato, dove i tempi e i luoghi si confondano e si mescolino, fino a crearne uno del tutto nuovo, fuori dai tempi e dai luoghi conosciuti? Ecco, quella, a quei tempi, era la mia casa. Un po' foresta del nord e un po' coda di cometa, un po' casetta di marzapane e un po' isolachenoncè.
Erano le stesse fantastiche creature a guidare le mie mani - mai più così piene di maestria ad assemblare rami di abete e bacche di agrifoglio, a legare con nastri dorati, a costruire in instabili equilibri piramidi di palline, a disegnare con la neve finta paesaggi sconosciuti. A mano a mano la casa - ma solo dentro, chè questi sono spazi tutti interni, e il decorare con luci intermittenti i balconi lo abbiamo sempre considerato un inutile esibizionismo - si illuminava e si trasformava. E i suoi fantastici abitanti si trovavano sempre più a loro agio, a mano a mano che le bambine sgranavano gli occhi e stupivano davanti ad una nuova magia, che il giorno prima non c'era. Perché, se l'alberodinatale era una faccenda comune e condivisa, le decorazioni avevano il compito di strabiliare, e così venivano fatte di notte, a loro insaputa; e il mattino dopo, prima di avviarsi alla scuola materna, occorreva fare l'inventario di quello che gli gnomi avevano prodotto durante la notte.
L'ultimo tocco era il vischio, procurato gli ultimissimi giorni, perché arrivasse a Natale ancora fresco e turgido. E' piena di suggestione, questa perversa malattia degli alberi, che li soffoca incoronandoli col suo verde brillante; ma visto da lontano, sugli alberi della Francia, sembra un nero nido di uccello. Di sicuro a quei tempi, il vischio che arricchiva i nostri decori era stato tagliato con un falcetto d'oro da benevolenti druidi. Ed era posizionato in maniera strategica per catturare sonori baci, quando vi si passava sotto; baci materni e filiali, e baci un po' meno casti, quando finalmente le bambine andavano a letto.
Ma pian piano la casa si è spopolata dai suoi fantastici abitanti, mi auguro attratti da luoghi dove c'è ancora del lavoro per loro; bambini cui far brillare gli occhi, e adulti che sanno trasformare una pallina di supermercato in una sfera magica.
Da un po' di anni il biadesivo mi si appiccica alle dita, c'è sempre una pallina che rotola giù dalla sua piramide, e il vischio lo compro al mercato, raccolto da emigrati stagionali che sciamano in Francia nella stagione giusta. La corona c'è ancora sulla porta, a metà fra nostalgia e una certa qual superstizione.


I biscotti

Il terzo giorno di Natale - I biscotti
Si cominciava due o tre giorni prima della vigilia di Natale. Una sera, per tacita convenzione, tiravo fuori dal cassetto carta da modelli e forbici, e le mie bimbe, già eccitate, erano invitate ad inventare i disegni con cui avremmo tagliato le forme dei nostri straordinari, buonissimi, originalissimi, stragustosissimi, biscotti di Natale! La cosa era seria: non solo dovevano essere serviti come il dessert più atteso di tutto il pranzo natalizio, cui erano invitati con gran pompa nonne e nonni (“ma davvero li avete fatti voi?”), ma due o tre di loro dovevano essere messi sotto l'albero la notte di Natale, per rifocillare Babbo Natale in persona, nel suo viaggio estenuante.
Per cui i biscotti dovevano sì essere buoni, ma soprattutto essere belli. Così nascevano buffi Babbi Natale, approssimati abeti, molte palline, che erano facili da fare, angioletti paffuti. Forme incerte che loro mi consegnavano con orgoglio e che io di nascosto correggevo, per renderle adatte al la bisogna.
Poi andavamo a cercare gli ingredienti nelle drogherie meglio fornite del centro: marzapane, che poi avremmo colorato, praline, zuccherini, fili di cioccolato, canditi. E più le forme erano strane ed inconsuete, e più ci piacevano Ed era tutto uno stupore, loro e mio, e una gara a cercare le decorazioni più buone e più belle, che avrebbero strabiliato gli ospiti il giorno di Natale e sarebbero state apprezzati da Babbo Natale e dalle sue renne.
Poi veniva il giorno in cui occupare la cucina. Io mi assumevo il compito di pesare ed assemblare gli ingredienti – uova, zucchero, farina semplicemente – e di fare il primo impasto. Poi toccava alle bambine, bardate in vasti grembiuli e le maniche arrotolate ben su, tuffare le mani nella pasta e via, a malmenarla, finché non erano stanche. Io guardavo i loro occhi brillanti di eccitazione, e pensavo che sarei stata a guardarli per sempre. Ma poi veniva il momento di ritagliare sulla pasta ormai soda e lucida le formine che avevamo preparato. E... questo biscotto è per il nonno, e questo per la nonna, e questo per te, e questo è per me, in un chiocciolio continuo di voci e di risate. Una risata per ogni biscotto che cadeva per terra, e una per ogni strizzatina d'occhio che siglava il giuramento solenne che nessuno – nemmeno Babbo Natale! - ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Poi, i biscotti impastati, ritagliati, decorati, erano solo da infornare. E avvicinarsi al forno e decifrarne i segreti, era compito esclusivo della mamma, e le bambine, sbaffate di farina e cioccolata, si lasciavano cadere sul divano, che si colorava di impronte, mentre si consumava il grande mistero della cottura.
A questo punto eravamo tutte e tre sfinite e la cucina era un campo di battaglia; e però, credete, biscotti così buoni, non ne ho mangiati più.


Il pranzo

Il secondo giorno di Natale – Il pranzo
Poiché non ho mai avuto tradizioni - non ci sono state nonne, nella mia famiglia, a tramandarle - le ho dovute inventare. Così, un Natale di tanto tempo fa, decisi che tutta la famiglia si dovesse riunire a casa mia, a festeggiare. Non è una gran famiglia dopotutto: ci sono suoceri e suocere, ma è priva di zie e di zii, cognati e cognate, nipoti e cugini, e di tutti gli orpelli che fanno una famiglia degna di questo nome. E tuttavia ce n'era abbastanza per impegnarmi a fondo nel pranzo di Natale.
Non è cosa da poco, questo inventare tradizioni, soprattutto perché non amo cucinare; dunque capite bene l'impegno che ci ho messo. Per tutto il tempo del Natale, le bambine erano le protagoniste, niente che non fosse pensato e fatto per loro; ma il pomeriggio della vigilia, toccava a me insediarmi con fare da arzdora in cucina e pregare il consorte di occuparsi delle bambine e di portarle alla giostra in piazza, ché io avevo altro da pensare.
A dir la verità mi piaceva, solo per quell'occasione, entrare nella parte di cuoca; avrei perfino voluto avere una grande cucina, invece di quei tre metri quadrati del tutto sufficienti per il resto dell'anno, con una stufa economica. Avrei voluto circondarmi di grandi pentole sbuffanti, e di mortai dove pestare chissà quali ingredienti, e troneggiare da lì, come una regina. Per entrare meglio nella parte avrei voluto anche essere grassa, e brandire un mestolo e schiamazzare contro chiunque mettesse piede nel mio regno - solo per quel pomeriggio, però.
Così, fingendo di saper cucinare, almeno per quel giorno, iniziavo a montare, a tritare, a pelare, a stagliuzzare, a colare, a impastare, a mescolare, a mantecare, a soffriggere, a lessare, e a decorare infine.... E pian piano la cucina si riempiva di vapori e di odori, quello aspro del limone e quello dolciastro della vaniglia, mentre il soffritto soffriggeva, l'arrosto arrostiva e il lesso lessava.
Come da tradizione, il giorno dopo, tutti quei tegami che ora sfrigolavano e sbuffavano avrebbero ceduto le loro pietanze a grandi piatti rotondi, tirati fuori per l'occasione; come da tradizione, ogni commensale avrebbe lodato il pranzo. Certo che l'avrebbe lodato, e avrebbe finto di non far caso se le lasagne mancavano un po' di sale, o se l'arrosto ne era un po' troppo fornito. E avrebbero lodato il tronco di Natale, il dolce della tradizione inventata da me, che – nessuno lo ha mai detto, ma lo so – non piace tanto, ma è così bello da vedere, proprio un vero ceppo, con la corteccia nodosa e la neve che vi fiocca sopra, che non rinuncerei mai a metterlo in tavola. Certo, avrebbero lodato tutto: altrimenti, che gusto ci sarebbe ad inventare le tradizioni?



Il primo giorno di Natale – Stille Nacht, heilige Nacht
Era un tempo sospeso quella notte. Prima veniva il tempo degli adulti, la cena di magro a casa dei nonni, lo scambio dei regali, le chiacchiere intorno alla tavola, e le bambine che sbadigliavano, ma resistevano, gli occhi cocciutamente aperti. Perché dopo veniva il tempo per loro.
Incominciava durante il percorso per tornare a casa, quando pian piano la notte diventava magica. Chiusi nell'abitacolo della macchina cercavamo nel cielo la cometa, e le luci degli alberi di Natale addobbati nei giardini prendevano strani sfavillii (ma forse non erano luci di Natale, ma gli occhi brillanti delle bambine a risplendere tanto); si cantavano canzoni di Natale, religiose o laiche, italiane o straniere, poco importava. Quella che ci piaceva di più - che mi piace ancora di più - è "Adeste fideles", sfavillante di gioia; così eravamo anche noi, a quei tempi, “laeti et triumphantes”. Quella notte le bambine andavano a letto silenziose; le accompagnavano i campanellini della slitta di Babbo Natale, opportunamente fatti tintinnare - e allora un brivido le percorreva, un'emozione infantile ma quanto intensa, pari forse solo a quella che dà l'incontro col primo amore. Sotto l'albero una tazza di latte e un piattino di biscotti - dei nostri biscotti - attendevano l'arrivo di Babbo Natale. La mattina dopo restavano solo poche briciole a testimoniare quanto quello spuntino fosse stato gradito. A volte Babbo Natale lasciava , coi doni, anche una lettera, scritta colla calligrafia puntuta dei vecchi, un po' spiegazzata per il lungo viaggio; aveva tante cose da raccontare, soprattutto disavventure di vecchietto, magico sì, ma un po' pasticcione. Ma sotto l'albero riusciva sempre a lasciare qualcosa di inatteso. Di molto inatteso, spesso molto diverso da quello che le bambine avevano desiderato e chiesto. Oh, ma nella sua lettera Babbo Natale ne spiegava con dovizia di particolari tutti i motivi: l'invasione degli orsi, la malattia delle renne, lo sciopero degli spalatori di neve, un ruzzolone per le scale…
Quella notte, placata l'eccitazione, addormentate le bambine, messe da parte le carole di Natale e le fiabe, mi piaceva restare un po' sola, nel silenzio, prima di dormire. Ad allungare le orecchie, per tentare di sentire anch'io le campanelline della slitta, e ad allungare le dita, ormai troppo grandi, goffe, da adulta, rese inabili a riafferrare magie.
Ma in fondo il mio dono, inestimabile, l'avevo avuto, anzi due. Quello che si festeggia in tutte le notti di tutti i Natali passati e futuri, ciò che è capace di renderci immortali: un bambino (anzi, due bambine).

Manuela Faccani


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  24 dicembre 2006