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La normalità del male
Una settimana da non dimenticare
Umberto De Pace



Stampiamocela bene nelle nostre menti questa settimana. Non dobbiamo dimenticarla.
Si scopre il vaso di pandora in una clinica milanese. Una fra le tante, la clinica Santa Rita, dove esseri umani, avidi e senza scrupoli, succhiavano il sangue – fuori da ogni metafora – ad altri esseri umani, per un po' più di trenta denari. I primi che talune volte, fingevano di asportare il cancro a loro simili, sono l'escrescenza, fino a ieri nascosta, oggi visibile, di una società malata di cancro, che, come spesso accade, fatica ad accettare il suo stato, fingendo che questo sia un corpo ad essa estraneo.

Si fatica a riconoscere che un uomo, un essere umano, sia stato ucciso da altri esseri umani, come nei films, quelli all'americana, trasmessi sulle nostre reti, con bollino rosso, in prima serata. Prima drogato, poi ucciso a sprangate e quindi bruciato. Il tutto per un milione di euro. Tanto valeva la sua vita assicurata, stipulata nelle mani della sua datrice di lavoro. Il suo problema, oltre a quello di fidarsi troppo dei suoi simili, è quello di essere nato in un paese che nella borsa italiana dei “valori” oggi è “svalutato”. Perché non tutte le vite sono uguali, qui da noi. Non più. Forse non lo è mai stato. Certamente oggi, più di ieri. Quindi è giusto che la sua fine atroce – una fra le tante – sia relegata ai margini, una notizia fra le altre, e duri quanto può durare la vita di una farfalla.

Non ci si preoccupa di cadere nel banale. No. E questo può capitare sia a un presidente della Repubblica, sia al presidente della camera. Di fronte all'ennesima strage sul lavoro, le stesse parole di sempre: “basta!”, “emergenza lavoro!” e tante altre futili e puerili parole, che come un eco si disperdono e perdono nel nulla di un deserto. Un deserto, chiamato lavoro, a cui dedicare per monumento, i sei lavoratori di Mineo, abbracciati fra di loro, nel buio di una fossa mortifera. Questa si, una metafora del nostro tempo.
Metafora, perché la solitudine del e nel lavoro, la precarietà non solo più del lavoro, ma della proprio vita al lavoro, la si trova nel fondo di una vasca, come in cima ad una impalcatura.
Il sud e il nord di un paese che si vuole diviso, in tanti tristi egoismi e individualismi, su una cosa è unito: le morti bianche. Nell'hinterland milanese, cade un ponteggio in un cantiere, due morti e un ferito. Tre esseri umani, anche loro figli di un dio minore. Sulle loro tombe, occorrerà aggiungere alle date di nascita e di morte, 5 anni in più … di pena. Erano clandestini.
Al telegiornale della sera, la notizia fra le tante – inizio, centro e chiusura, chiaramente dedicati a Italia-Romania – ci comunica che quegli esseri umani, erano stati scelti fra i tanti, che all'alba in piazzale Lotto, a Milano, vengono “chiamati” dai caporali. Qualche anno fa la notizia sarebbe stata oggetto d'inchiesta, d'indagine, oggi è una cosa normale, fra le tante.

Avendole provate tutte in tema di sicurezza, non dovrebbe stupire più di tanto, che un ministro della repubblica, come La Russa, metta a disposizione l'esercito. E difatti la cosa non stupisce affatto, sia perché da un post-fascista, non ci si poteva aspettare altro, sia perché fra tante, questa ancora mancava. Ciò che stupisce è l'atteggiamento del ministro quando dichiara ciò a noi cittadini, tramite il telegiornale. Un sorriso velato, uno sguardo ammiccante, poco consono a una scelta che dovrebbe essere eccezionale, estrema, grave, quale quello del dispiego sul territorio della forza militare. Niente di tutto ciò, passa anch'essa come una cosa normale, accolta qui a Milano con il plauso unanime del sindaco e del presidente della provincia.

La normalità del male, ci viene propinata oramai come ineluttabile, inevitabile. L'emergenza, l'eccezione sono la normalità. Tutto ciò è inaccettabile.

Umberto De Pace


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  14 giugno 2008