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Il mio NO al referendum sulla riforma della Costituzione
Giuseppe Pizzi

Brunetta e l'ANPI
Roma, Palazzo Giustiniani, 27 dicembre 1947- Il Presidente provvisorio della Repubblica Enrico De Nicola firma la Costituzione italiana alla presenza del presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi e del presidente dell'Assemblea costituente Umberto Terracini (agli estremi sx e a i dx della foto, si notino l'austerità dell'ambiente, il tavolo coperto da un drappo di velluto scuro, le tre penne una per ogni firmatario e i calamai in cui intingerle, l'enciclopedia Treccani, i cinque personaggi tutti con gilè e fazzoletto bianco al taschino)

Poiché di questa riforma – straordinaria identità creatura/creatore – mi piace poco o niente, non esiterò a mischiarmi all'accozzaglia e voterò risolutamente e motivatamente No.

Non mi piace per prima cosa quel suo essere un minestrone dagli svariati ingredienti, alcuni commestibili altri indigesti.

Fra gli indigesti, mi risulta addirittura tossico il Senato così come è configurato, uno sgorbio istituzionale talmente sconclusionato da risultare a priori inadatto al tuttora imprecisato pasticcio di funzioni che la riforma gli assegna come, per sua natura e complessione, sarebbe inadeguato allo svolgimento di qualsiasi altro ipotizzabile compito.

Non è di mio gradimento nemmeno come e da chi la riforma è stata approvata, da un parlamento illegittimo per sentenza – un oltraggio alla Suprema Corte rasentante l'eversione – e per di più tenuto sotto scopa da esplicite e reiterate minacce di scioglimento. Rivolte a chi se non a quei senatori pronti a tutto, anche a decretare la condanna a morte della loro stessa Camera elettiva, pur di salvare stipendio, gratifiche e privilegi? Non di eutanasia ma di induzione al suicidio si deve dunque parlare.

Fatico a mandar giù anche una novità cui nessuno sembra prestare attenzione. Alludo al profumo di “captatio benevolentiae” del voto femminile emanante dalla promozione della parità di genere nelle rappresentanze parlamentari dell'art. 55 riformato. Le cittadine italiane sono consapevoli che già nell'art. 3 dei Principi Fondamentali della Costituzione è contenuta una chiara, solenne, mirabile enunciazione della parità di genere, perciò la promessa aggiuntiva di musica, ricchi premi e cotillon suona come un insulto alla loro intelligenza.

Sgradevole è perfino la formulazione del quesito referendario. Umberto De Pace lo definisce truffaldino, a me ricorda l'esprit florentin del suo ideatore, perché limitarsi a dire “contenimento del costo di funzionamento delle istituzioni” può, secondo intenzione, suscitare un generale mormorio di approvazione mentre la versione completa e corretta “contenimento dello zero virgola percento del costo di funzionamento delle istituzioni” provocherebbe un uragano di fischi. C'è un limite al di là del quale l'edulcorazione si fa menzogna.

Come se non bastasse, c'è che il condimento sa di rancido, parlo del testo della riforma che deturpa anche nella forma una sostanza già ampiamente compromessa. È vero che, se i pensieri sono confusi, non c'è possibilità di esprimerli in parole chiare ma non è una buona ragione per rifugiarsi nel gergo burocratico dei funzionari ministeriali e non pensarci più. Almeno alla Costituzione andrebbero risparmiati i “nonché”, “secondo le modalità di”, “in conformità a”, seguiti da sfilze di commi e di articoli, una selva oscura in cui il cittadino comune evita di addentrarsi per non perdersi. Eppure dovrebbero saperlo, Renzi Boschi Verdini Finocchjaro, che la limpida stesura finale della Costituzione del '48 è opera del sommo latinista Concetto Marchesi, gran traduttore di Tacito e Seneca, quel che non si capisce è come, sapendolo, si permettano anzi accaniscano a maltrattarla. Che si tratti di iconoclastia o di semplice sciatteria, arrivare in fondo al famigerato art. 70 è un esercizio sul bordo dell'incomprensibilità, come per il fisco ci vuole il commercialista per la Costituzione toccherà consultare il giurista di fiducia. Non so cos'altro aspettino, l'Accademia della Crusca e la Società Dante Alighieri, a schierarsi per il No in difesa del patrimonio linguistico e stilistico così come l'ANPI l'ha ritenuto doveroso in difesa dell'antifascismo

Concludo ribadendo la convinzione che riforma e legge elettorale “si tengono”, proprio come biella e manovella una senza l'altra non funziona, quindi votando No al referendum sulla riforma costituzionale si depotenzia anche l'orribile Italicum. Speriamo in bene!

Giuseppe Pizzi

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  25 novembre 2016