prima pagina lente pagina precedente



Il Giorno del ricordo 2
Eneo Baborsky

VERGAROLLA

Desidero commentare l'articolo di Franco Isman “Il Giorno del ricordo” del 10/02/2019, provando a dare un pacato contributo di riflessione.
 
È giustissimo tracciare il quadro storico complessivo della regione e ricordare le violenze e i crimini fascisti che hanno preceduto quelli titini, ma occorre a mio parere chiarire bene che ciò non intende creare alcun alibi giustificazionista.
 
In queste terre multiformi, da sempre multiculturali e multietniche, punto di contatto tra genti diverse, rimescolio di genti, un mondo dagli equilibri delicati in cui la convivenza di etnie diverse era pacifica anche se non sempre idilliaca, in questo mondo di cristalli delicati sono entrati a camminare come elefanti due totalitarismi, quello fascista prima e quello nazional-comunista titino poi, a distruggere tutto, e ciascuno di essi deve assumersi le proprie responsabilità senza sconto alcuno.
 
Il giustificazionismo è un grave errore: la storia non giustifica, prova semmai a spiegare ma non a giustificare. Il male è il male, e non diventa minore perché è compiuto da un antifascista. Non si può giustificare un crimine con altri crimini. La guerra contro il nazifascismo è stata combattuta per porre fine alla soppressione della libertà e alle nefandezze, non per consentire ai vincitori di commetterle o di aggravarle; e un crimine simile a quello compiuto dai fascisti diventa, secondo me, ancor più grave se commesso dagli antifascisti, perché al male in sé si aggiunge il tradimento dei valori.
 
È giusto, dicevo, allargare il quadro storico, ma, già che ci siamo, ritengo sia necessario allargarlo ancor di più. Noi ci siamo fatti un'idea alquanto semplicistica della guerra in quella zona: gli italiani da una parte, i partigiani titini dall'altra. In realtà il quadro era molto più complesso; aveva  ragione Winston Churchill quando diceva acutamente che “I Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire!”. Erano presenti all'interno della Jugoslavia articolati movimenti anticomunisti con connotazioni non solo politiche ma anche etniche e religiose: ustascia (croati filonazisti), cetnici (serbi filomonarchici), domobranci e belagardisti sloveni, križari (o crociati). E si è venuta a creare una vera e propria guerra civile interna alla Jugoslavia che ha portato non alle migliaia di morti delle foibe che conosciamo noi ma a centinaia di migliaia di vittime che nulla hanno a che fare con gli italiani.
 
Vale la pena ricordare come esempio il dimenticato massacro di Bleiburg, a guerra finita, a metà maggio 1945. Un grande gruppo di ustascia, di cetnici e di collaborazionisti cosacchi e sloveni, insieme alle proprie famiglie, quindi a civili, donne e bambini, in fuga dalle forze partigiane titine, giunge al confine austriaco e si trova la strada bloccata dall'esercito britannico nei pressi di Bleiburg, villaggio minerario della Carinzia a nord di Lubiana. Il gruppo negozia la resa per consegnarsi alle forze britanniche. Gli inglesi rifiutano, irremovibili, e consegnano i fuggitivi ai titini in base agli accordi di Jalta, secondo cui gli eserciti vinti dovevano trattare direttamente con i rispettivi vincitori. Il gruppo resta in balia dei titini. Questi aprono il fuoco da entrambi i lati sulla colonna ormai disarmata, una vera e propria esecuzione sommaria di massa. Il numero esatto delle vittime è ignoto, stimato superiore alle 50.000. Cose di ferocia inaudita, per lo più sconosciute. A fine anni Novanta le autorità slovene hanno fatto scavare nel loro territorio, non solo nei pressi di Bleiburg ma anche altrove, rinvenendo centinaia di fosse comuni e foibe piene di cadaveri.
 
Tutto ciò per indicare che l'infoibamento e le violenze titine contro gli oppositori erano ahimè prassi “normali”, storicamente accertate, ed è assai riduttivo metterle in relazione solo con le reazioni alle malefatte dei fascisti italiani. Queste stragi interne peraltro, se fossero state studiate con l'attenzione che meritavano, ci avrebbero certo aiutato a capire meglio quanto è poi successo in Jugoslavia negli anni '90 (Sarajevo, Mostar, strage di Srebrenica, Kosovo, fosse comuni, odio di matrice nazionalista e religiosa tra serbi, croati, bosniaci, musulmani, cristiani). La storia cerca sempre di insegnare qualcosa ma siamo noi a non capire…
 
Io personalmente non sono poi disposto ad accettare la “giustificazione” che si era in guerra: anzitutto perché, ad eccezione della prima ondata delle foibe istriane accaduta dopo l'8 settembre del 1943, si era in tempo di pace; inoltre perché si tratterebbe in ogni caso di una giustificazione assai pericolosa, in base alla quale si riuscirebbe a legittimare tutto. In questa luce sarebbero ad esempio giustificabili anche gli eccidi nazifascisti di Marzabotto o delle Fosse Ardeatine in quanto reazioni in tempo di guerra a comportamenti precedenti da parte dei partigiani. È uno scaricabarile che va assolutamente stroncato. Tanto per essere chiaro, io sono convinto che qualsiasi atto di giustizia sommaria vada condannato: pur ben conoscendo l'eccidio nazifascista avvenuto a Piazzale Loreto a Milano in agosto '44, di fronte al macabro fatto di aprile '45 con i cadaveri fascisti appesi nella stessa piazza sto dalla parte di Ferruccio Parri che lo definì un episodio di “macelleria messicana”, e di Sandro Pertini che esclamò “L'insurrezione è stata disonorata”. Sono peraltro sotto gli occhi di tutti le indegne immagini recenti della fine di Saddam Hussein e di Gheddafi.
 
Un punto su cui dissento è anche l'affermazione che la data del 10 febbraio scelta per il “Giorno del ricordo”, temporalmente vicina al 27 gennaio “Giorno della memoria”, mostri “l'intenzione di voler porre sullo stesso piano due avvenimenti, tragici entrambi, ma certamente non comparabili”. È semmai il contrario: la vicina commemorazione della Shoah crea il problema opposto, quello di oscurare la seconda. Al di là di questo, la ragione della data del 10 febbraio è assai precisa: in quel giorno del 1947 veniva firmato a Parigi il trattato di pace che imponeva all'Italia, tra l'altro, la cessione dei territori del confine orientale alla Jugoslavia. Non si tratta dunque di una data scelta politicamente ad arte per secondi fini: non sarebbe stato certo possibile invitare le potenze vincitrici a cambiare giorno, inopportunamente vicino al 27 gennaio. Esistono anche altre sovrapposizioni del genere: è difficile ad esempio commemorare in Italia il genocidio degli Armeni che cade il 24 aprile, quando il 25 aprile si festeggia la Liberazione; così è non perché gli Armeni vogliano utilizzare ad arte il clima del 25 aprile, ma perché il 24 aprile del 1915 è per gli Armeni una data significativa della loro storia.
 
Un ulteriore punto su cui dissento ancor più fermamente è l'affermazione che i profughi istriani e dalmati fossero “in massima parte di sentimenti fascisti”. Io sono uno di quegli esuli, bambino, con la mia famiglia di origine che di sentimenti fascisti non era. A parte ciò, generalizzazioni del genere sono pericolose perché rendono possibili assurdi cortocircuiti come il seguente: il 18 agosto 1946 a Vergarolla c'erano in massima parte solo “fascisti” italiani, ed è stato tutto sommato un atto di giustizia farli saltare in aria… In ogni caso, è ormai ben noto, da vari storici e studiosi come Raoul Pupo, Gianni Oliva, Guido Rumici, ecc., che, quando da una città se ne va il 90% della popolazione, se ne va l'intero tessuto sociale: non solo perciò i ricchi borghesi che non si vogliono adeguare al comunismo di Tito, ma gli impiegati, gli operai dei cantieri, gli insegnanti, i piccoli negozianti, i contadini, i proletari, addirittura gli antifascisti con le bandiere rosse: persone che prendono la durissima decisione di abbandonare il lavoro e di subire la confisca della casa e di tutti i beni, ben sapendo che non esiste ritorno. Le semplificazioni e le generalizzazioni sono sempre state pericolose: una superficiale analisi affibbiava il titolo di “fascista” a chi si rifiutava di vivere nel presunto “paradiso” di Tito, mentre, al contrario, chi rimaneva veniva bollato dagli italiani come “comunista” ma in Jugoslavia era guardato come sospetto “fascista”…
 
Vorrei riportare quanto scrive Guido Rumici a proposito del citato brutto episodio della stazione di Bologna, avvenuto il 18/02/1947: “Si trattò di un episodio nel quale la solidarietà nazionale venne meno per l'ignoranza dei veri motivi che avevano causato l'esodo di un intero popolo. Partirono tutte le classi sociali, dagli operai ai contadini, dai commercianti agli artigiani, dagli impiegati ai dirigenti. Un'intera popolazione lasciò le proprie case e i propri paesi, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione politica dei singoli, per questo dico che è del tutto sbagliata e fuori luogo l'accusa indiscriminata fatta agli esuli di essere fuggiti dall'Istria e da Fiume perché troppo coinvolti con il fascismo. Pola era, comunque, una città operaia, la cui popolazione, compattamente italiana, vide la presenza di tremila partigiani impegnati contro i tedeschi. La maggioranza di loro prese parte all'esodo”.
 
E pensare che furono proprio gli esuli a pagare per conto della nazione intera, con i loro beni confiscati da Tito, l'ingente risarcimento imposto all'Italia dal trattato di pace del 10 febbraio 1947 per danni di guerra alla Jugoslavia. Mai indennizzati. Vogliamo almeno ringraziarli e non bollarli di essere “fascisti”? Penso che avesse ragione Indro Montanelli quando nel 2001 così scrisse sul Corriere della Sera: “Dobbiamo chiedere perdono agli esuli istriani e dalmati per il modo in cui li accogliemmo dando loro dei fascisti; occorre ricordare agli italiani che gli italiani migliori di tutti, per serietà, dignità, coraggio e discrezione, sono quei “fascisti” lì, che Dio ce li conservi come sono”.
 
Un ultimo commento riguarda infine il citato film “Rosso Istria”, trasmesso da RAI 3 in prima serata venerdì 8 febbraio scorso. La mia opinione è che l'accorato grido “Vergogna” vada indirizzato non al film ma al tragico fatto che vi è decritto.
Concordo sulla non opportunità di portalo nelle scuole, dove è necessario esporre un quadro storico meditato e non un fatto singolo, di violenza inaudita, per quanto vero. Ritengo tuttavia che il pubblico debba sapere a che livello sia potuto arrivare l'odio in quelle terre, dove ahimè la realtà è stata peggiore delle immagini viste nel film, che ci ha risparmiato il pezzo di legno conficcato nella vagina e l'amputazione di entrambi i seni.
 
È troppo facile e scontato per il regista rendere così odioso il cattivo di turno ma la verità è che all'efferatezza non vi è stato limite: a questo si riesce ad arrivare quando si è accecati dall'odio e si perde il senso dell'uomo. “Se Satana crede di poter peggiorare l'uomo, è davvero ingenuo”: è la significativa frase pronunciata dall'attore Franco Nero, nei panni del professor Ambrosin, l'intellettuale del film, che combatte non con le armi ma con la parola ed è per i titini la persona più pericolosa.
 
A mio parere il film ha almeno il merito di spezzare il silenzio su una tragedia che ci riguarda tutti, soprattutto come esseri umani. Evidentemente io sono tra coloro che hanno guardato il film con una faziosità tale da accecarmi gli occhi… Al regista sono piovute addosso le stesse accuse già rivolte qualche anno fa a Cristicchi per il suo lavoro teatrale “Magazzino 18”: fascista e revisionista. Non vi è pace, il tempo è passato invano.
 
È raccapricciante venire a sapere che, in alcune delle poche sale dove è stato proiettato il film, siano comparse scritte in vernice rossa a ricordare che Norma Cossetto era fascista: ergo, se l'è meritata. E si ripete di nuovo il cerchio dell'odio. Eppure nel 1949 un deputato del Partito Comunista, Concetto Marchesi, già rettore dell'Università di Padova, conferì a Norma Cossetto la laurea honoris causa, e nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi le assegnò la medaglia d'oro al valor civile. Tutti evidentemente “fascisti” anche loro…
 
Ma la conclusione di questa lunga serie di commenti deve essere positiva! L'unica via da percorrere è quella che ci viene indicata da Claudio Magris, grande scrittore contemporaneo: “Ricordare i fatti e la storia del confine orientale non significa coltivare l'odio verso gli slavi, così come ricordare per sempre Auschwitz non significa coltivare l'odio per i tedeschi di oggi”. Lo spirito giusto è quello della memoria non rancorosa, in cui ciascuno si sappia assumere le proprie responsabilità; è quello dell'incontro dei tre Presidenti di Italia, Croazia e Slovenia, Napolitano, Josipoviæ e Türk, che a Trieste, nel luglio 2010, si sono inchinati assieme di fronte al Narodni Dom, simbolo della violenza fascista del 1920, ma anche alla lapide in ricordo dell'esodo giuliano-dalmata in piazza della stazione. Spirito europeo, dunque, ma con rispetto comune dei diritti delle minoranze ed occhio attento ad evitare interessi di parte e nazionalismi latenti, soprattutto culturali.
 
Mi fa ben sperare quanto sta succedendo a Fiume: dopo infinite richieste da parte della comunità italiana locale, l'aquila in cima alla Torre civica, smontata nel 1949 dall'amministrazione jugoslava, è tornata a svettare nel 2017, non come simbolo revanscista italiano ma come segno identitario della città. Da anni le autorità croate hanno riconosciuto l'autoctonia italiana, nessuno avrebbe mai pensato che potesse succedere. Nel 2020, dopo Matera, Fiume sarà la capitale europea della cultura, e si sta ora provvedendo all'introduzione del bilinguismo nelle iscrizioni, nel rispetto delle minoranze e dei diritti e dei doveri, senza considerarlo revanscismo. Bei segni di progresso che possono insegnare qualcosa anche a noi!
 
In post scriptum suggerirei di non coinvolgere Salvini in queste discussioni. Siccome a Salvini il film “Rosso Istria” piace, non bisogna vederlo! Ma allora, poiché Salvini è andato alla foiba di Basovizza, io non ci devo andare? No, a me non interessa chi va a Basovizza per suoi fini, io so solo che, come ci sono andato, ci ritornerò.
 
Eneo Baborsky



Apprezzo la lettera di Eneo Baborsky inviata ad Arengario con due righe di accompagnamento personale in cui dice che la sua intenzione è quella di stimolare una riflessione.

Alcuni terribili episodi da lui citati, di allora e degli anni Novanta, “hanno portato a centinaia di migliaia di vittime che nulla hanno a che fare con gli italiani”. Appunto, nulla hanno a che fare nemmeno con il mio articolo.

Baborsky contesta la mia affermazione che i profughi istriani e dalmati fossero “in massima parte di sentimenti fascisti”, cosa per me addirittura ovvia, ma non ho scritto “tutti” ed invece ho aggiunto “e non è una vergogna”. Questo significa che furono vittime innocenti delle foibe “istriane”, immediatamente dopo l'8 settembre, come pure della strage di Vergarolla.

Quanto all'istituzione del Giorno del ricordo, aldilà delle intenzioni che io attribuisco alla prossimità con il Giorno della memoria e che Baborsky nega, ci sono davvero molti segnali che si sta andando nella direzione di fare di ogni erba un fascio, di considerare questo una commemorazione antifascista e quello una anticomunista, mettendo così sullo stesso piano la Shoah, lo sterminio di un intero popolo di sei milioni di persone, con la tragedia degli istriani e dalmati, frutto ineluttabile di una guerra scatenata, ferocemente condotta e persa.

Baborsky cita Claudio Magris che scrive: “Ricordare i fatti e la storia del confine orientale non significa coltivare l'odio verso gli slavi, così come ricordare per sempre Auschwitz non significa coltivare l'odio per i tedeschi di oggi” ed io sottoscrivo senza riserve.
Ma l'orripilante Rosso Istria sulla tragica fine di Norma Cossetto, anche se “ci ha risparmiato il pezzo di legno conficcato nella vagina e l'amputazione di entrambi i seni”, episodio inventato di cui non c'è traccia nella documentazione esistente, va nella direzione diametralmente opposta, ed il plauso di Salvini, da me riportato, ha proprio questo significato.

Fr.I.


Condividi su Facebook
Segnala su Twitter


EVENTUALI COMMENTI
lettere@arengario.net
Commenti anonimi non saranno pubblicati

in su pagina precedente

  15 febbraio 2019