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Indro Montanelli, le statue, noi e l'altro
Umberto De Pace



Pensando a Indro Montanelli mi riaffiora alla mente un suo editoriale sul Giornale del settembre 1982. Era appena stato commesso il massacro di Sabra e Chatila a Beirut in Libano, vittime i palestinesi, compiuto dalle Falangi Libanesi e l'Esercito del Libano del Sud con la complicità e copertura dell'esercito israeliano. Del suo commento mi rimase impresso non tanto la presa di posizione di parte, quanto il tono sprezzante, la mancanza di qualsiasi dubbio o incertezza, fosse anche solo dettata dalla pietas di fronte a quella carneficina. Nulla, almeno questo è il mio ricordo. La sua era una difesa a priori della causa israeliana. I toni e lo stile di Montanelli, per quanto mi riguarda, erano quelli, per usare dei termini novecenteschi, di una destra conservatrice e reazionaria, disposta a tutto pur di salvaguardare le proprie ragioni e il proprio stile di vita.
Un secondo personale ricordo risale al 1994. Indro Montanelli lasciava la direzione del Giornale a causa delle pressioni, per un sostegno alla sua “discesa in campo”, di Silvio Berlusconi proprietario del quotidiano. Montanelli certamente non era disposto a muoversi a comando. In tal senso lessi la sua rottura con Berlusconi, e non come un suo fantasiosa, quanto risibile, deriva a sinistra come non pochi denunciarono/annunciarono in quel periodo.
Nel 2005 lessi il libro “Italiani, brava gente?”, dello storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca, nel quale veniva ripercorsa dall'autore, tra i vari argomenti, la pervicace battaglia condotta per decenni da Montanelli, tesa a negare l'uso di armi chimiche durante la guerra italo-etiopica del 1935-36. Lo storico scriveva che Montanelli, protagonista di quella guerra ed avendo riportato la sua testimonianza nel libro “XX Battaglione eritreo”, condivideva con altri personaggi di quella stagione, Alessandro Pavolini e Vittorio Mussolini, il “… peggior insegnamento del fascismo: il disprezzo per l'avversario, l'assenza di pietà, l'inclinazione allo sterminio, l'esaltazione per la bella morte.” Uno spirito parte di un'epoca oramai passata? Non si direbbe. Nel suo precedente libro “I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia” (Editori Riuniti, aprile 1996), Angelo Del Boca riportava come: “Per trent'anni, metodicamente, spesso usando le stesse parole, quasi avesse azionato un disco rotto, mi metteva alla gogna, quando non mi crocefiggeva. Il suo linguaggio, infatti, già abitualmente pungente, nei miei confronti era astioso, quando non era brutalmente offensivo.” A partire dal 1995 Montanelli stemperò la sua posizione, pur continuando a difenderla fino a quando, di fronte all'evidenza inoppugnabile della ricerca storica, dovette cedere. Il 13/09/1995 nella “Stanza di Montanelli”, la rubrica a sua cura per il Corriere della Sera, il giornalista fu costretto alla resa delle armi riconoscendo il suo torto, pur girandoci intorno con la consueta eloquenza per chiudere con: “La mia pàpera sui gas rimane, e ne chiedo scusa a lei ed ai lettori. Ma la verità in Italia ha sempre molte facce, tra le quali è facile sbagliarsi”. Da ultimo non manca il ricordo del vile attentato che subì a Milano il 22 giugno 1977, da parte delle Brigate Rosse che gli spararono alle gambe.

Indro Montanelli ferito dalle Brigate Rosse (wikipedia)

Fino a qui i miei ricordi che oggi ho potuto arricchire di nuovi quanto interessanti particolari. Nel 2010 viene ripubblicato il primo libro “africano” di Indro Montanelli “XX Battaglione eritreo” (Ed. Rizzoli) e nell'introduzione Angelo Del Boca svela un retroscena inedito, vissuto a margine di un convegno che lo vedeva tra i relatori insieme a Montanelli, il quale: “… continuava a conservare, sull'argomento dei gas, le sue antiche “certezze” fino al punto che, poco prima del dibattito “… Indro quasi mi schiacciò contro una parete e in tono concitato disse: “Sono stato troppo affrettato nel riconoscere le mie colpe. Io c'ero sul posto e posso garantirti che i gas non sono mai stati usati”. Con tutto ciò, e tanto altro ancora, va detto che lo storico Angelo Del Boca, oggi novantacinquenne, respinge al mittente le accuse di razzismo e fascismo lanciate in questi giorni contro Montanelli, riconoscendo al massimo nei suoi confronti l'accusa di “colonialista”. Accuse a onor del vero che il giornalista non mancherà più volte di attirarsi contro nel corso della sua vita. Come ricorda Fausto Pellecchia in un recente articolo sulla rivista Micromega: “Il 3 ottobre 1962, sul Corriere della Sera, Montanelli commentava le proteste dei segregazionisti contro l'iscrizione all'Università dell'afroamericano James Meredith, con queste parole: «Gli studenti bianchi di Oxford, opponendosi all'ingresso del loro collega Meredith nell'Università, hanno commesso un errore e un sopruso perché un privilegio di razza nel campo dei diritti politici e civili eÌ inaccettabile e indifendibile. Tuttavia questo errore e questo sopruso sono stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo eÌ legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca. So di tirarmi addosso, scrivendo queste parole, fulmini e saette. Ma non eÌ colpa mia se un'esperienza di secoli ha dimostrato che il meticciato tra bianchi e neri ha dato e seguita a dare il più catastrofico dei risultati».
Più articolata l'analisi di Claudio Vercelli (il Manifesto del 18/06/20) il quale traccia un percorso critico sul percorso coloniale invitando a una riflessione sull'incompiuta coscienza europea sul tema ed evidenziando come della figura del giornalista tosco-milanese rimanga vivo in un'ampia platea di lettori (ed elettori) conservatori: “… il disprezzo per i movimenti sociali, ovvero sia per la loro autonomia civile che per la capacità, da parte della collettività, di esprimere in autonomia una propria classe dirigente … Non è la collettività che possa decidere per sé, sono i capi che debbono decidersi quale collettività vogliano. La sua celeberrima “storia d'Italia”, campione di vendite, mietitrice di successi, è l'apoteosi di questa impostazione.” Difatti Montanelli nelle vesti di divulgatore storico, come si legge nell'incipit al I° Volume della “Storia d'Italia”, scritta dal 1965 al 2000, coadiuvato da Roberto Gervaso e poi da Mario Cervi, puntava a una storia intesa: “… non come dottrina astratta, ma come strumento concreto per capire l'Italia e il carattere (i vizi) degli italiani.” L'ambizione dell'autore era quella di fornire al grande pubblico uno strumento di informazione facile, chiaro, e possibilmente piacevole. In fondo Montanelli sapeva di cosa parlava incarnando lui stesso quei “vizi” italici di raccontare quelle mezze verità che hanno lo scopo di condurre in porto la propria narrazione. Basti pensare al non detto, alle allusioni, alle omissioni che, ancora nell'edizione del Corriere della Sera del 2003, permeano il racconto di quanto accadde nella guerra italo-etiopica (7° Volume, 1919-1936). Sono di questi giorni le rivelazioni sulle comunicazioni diplomatiche del Dipartimento di Stato USA pubblicate da WikiLeaks.
Siamo nel 1978, un anno cruciale per la democrazia del nostro paese, il terrorismo, il compromesso storico. Per l'allora direttore del Giornale pare non ci siano dubbi, meglio un governo autoritario, alla Pinochet, piuttosto che vedere i comunisti, guidati da Berlinguer, al governo con la Democrazia Cristiana di Aldo Moro. Per lo storico Marco Bernardi (“Quando la storia diventa storie”, Le Monnier Mondadori, 2019) Montanelli coltivò “propositi eversivi nell'immediato dopoguerra” e nel 1954 “… cercò l'appoggio dell'ambasciatrice americana in Italia, Clare Luce, repubblicana e anticomunista estrema, per creare un'organizzazione terroristica segreta da impiegarsi contro i comunisti nel caso di una loro vittoria elettorale”. Che vadano lette in tal senso le menzogne scritte da Montanelli sul Giornale del 24/10/1980 su Giuseppe Pinelli, rimangiandosele qualche anno dopo al processo per la strage di Piazza Fontana, come ricorda la figlia dell'anarchico ucciso innocente nei locali della questura di Milano?

Indro Montanelli nel 1936 anno del “matrimonio” con Destà (wikipedia)

Rispetto alle accuse di essere un razzista e stupratore, in più occasioni ebbe modo di esporre le sue ragioni. In una intervista televisiva del 1969, durante il programma televisivo di Gianni Bisiach, L'ora della verità, Montanelli racconta di una ragazza di dodici anni che aveva regolarmente sposato, comprandola dal padre, e di non aver esercitato nessuna violenza nei suoi confronti, pur riconoscendo che in Europa si sarebbe trattato dello stupro di una bambina. Il 12 febbraio del 2000, nella rubrica “La stanza di Montanelli” sul Corriere della Sera, scrive invece di una ragazza quattordicenne presa in “leasing” per i “servizi” necessari ad appagare i suoi desideri sessuali, faticosamente ottenuti a causa non solo del suo cattivo odore quanto al suo essere infibulata fin dalla nascita. Aggiungendo che il tutto si risolse con l'intervento brutale della madre della ragazza.

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Nel 1982 in una intervista rilasciata a Enzo Biagi apostrofa come “animalino, docile” la giovane moglie. Un termine affettuoso ci tiene a specificare Marco Travaglio, suo allievo prediletto, in una recente intervista a Famiglia Cristiana, tant'è che lo utilizzava anche nei confronti di sua nipote. In merito al suo rapporto con il fascismo è interessante leggere la testimonianza diretta di Montanelli (“Proscritto”, 7° volume della Storia d'Italia), non una adesione ma un esserci nato dentro “… e questo ci aveva esentato dalle scelte”. Un entusiasmo giovanile che iniziò a vacillare già negli anni trenta di fronte a un regime che andava burocratizzandosi senza lasciare ulteriori spazi. Poi arrivò la “bella avventura” della campagna di Abissinia senza “… capire che l'epoca degli imperi volgeva al tramonto”. Partiti pensando a Kipling tornarono delusi avendo avuto poche occasioni per saziare le proprie baldanze e di vedere in faccia il nemico. Tornati in patria la fronda iniziò a diventare divorzio e la scelta di essere fascisti per comodità più che per convinzione, diventava scomoda per “chi aveva un minimo di rispetto per sé stesso e voleva conservarlo ...” Deluso dai fuoriusciti antifascisti incontrati a Parigi decise insieme ad altri di svuotare il fascismo dall'interno “propagandando intorno ad esso l'incredulità e il disfattismo”. Almeno questo è il suo racconto. Per lo storico Claudio Vercelli interrogarsi sul grado di adesione di Montanelli al fascismo e sulle sue dissociazioni, è un esercizio pressoché privo di senso: “Poiché rimanda all'incomprensione di cosa fosse il fascismo medesimo e di quale e quanta trama fosse composto, a partire dalla capacità che ci sfida a tutt'oggi, di costruire, attraverso il concorso di una macchina mitologica in costante movimento, una fabbrica di consenso. Un nucleo fondante, sospeso tra freddo cinismo e irriverente narcisismo, compiaciuta creatività e crudele ingegno, che vede insieme a «Cilindro» (ndr soprannome di Montanelli) altri autori di vaglia, come Leo Longanesi, Mino Maccari, Curzio Malaparte solo per fare qualche nome. Il destino di ognuno d'essi, e d'altri ancora, quand'anche abbia assunto pieghe molto diverse da quelle originarie, si forgia nella temperie culturale fascista e ne riassume e riproduce i meccanismi per ondate successive, nel corso del tempo, traslandoli in forme di accettabilità tra il grande pubblico. Fino ad arrivare a oggi, a un genere di pubblicistica, scritta così come esibita, ovvero urlata in video, che evoca ossessivamente l'«anticonformismo», l'«essere fuori dal coro», il richiamo al populismo degli stracci per celebrare la propria superiorità di ceto intellettualizzato e del tutto proclive alle logiche di quei poteri corporati di cui ne finge la critica.” Una sintesi efficace ed esemplificativa di quella scuola di pensiero della quale Indro Montanelli è una figura di spicco. In essa si misura la grandezza intellettuale, la sua autorevolezza di pensiero e il suo insegnamento ed eredità professionale, culturale e di stile. Tangibili in tal senso gli insegnamenti del “Maestro” fra i suoi allievi o emuli odierni.
(segue)

Umberto De Pace



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  27 giugno 2020