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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 9 maggio 2004

Nota introduttiva
1. Sono stati aggiornati, sia come testo che come immagini i primi due Bei momenti, la Scuola degli Schiavoni e la Cappella Sansevero. Il Carpaccio nei teleri degli Schiavoni mostra la sua dote più grande, una specie di sublime curiosità, che è capacità di essere sorpreso e di sorprendere, e ciò succede anche in diverse altre sue opere. Le immagini di questa settimana in rete sono quindi a tema: la curiosità del Carpaccio in azione.
2. Lo so. Il brano tratto dal blog lo scopriremo solo vivendo è piuttosto lungo. Ma ho due scusanti: era pił di un mese che non scriveva (in rete si stavano gią verificando casi di crisi di astinenza), e poi è vivace, spiritosissimo e ben scritto. Con sorpresa finale.
p.c.

ragazzo che suona, doppio cartiglio
  
Le mele marce di Bush
Vittorio Zucconi su
la Repubblica 9 maggio

La vendetta delle vittime di Abu Ghraib su un presidente superbo che vorrebbe gloriarsi ed è invece costretto ogni giorno a umiliarsi, continua. Un altro giorno, un´altra scusa. La settimana di orrende notizie dal fronte, culminata nella più grave sconfitta propagandistica per un governo americano dalla foto della bambina vietnamita nuda consumata dal napalm, produce l´ennesima promessa di punire i "pochi colpevoli", la ripetizione dell´alibi delle "mele marce". Anche il messaggio radio del sabato mattina, che la propaganda presidenziale avrebbe voluto dedicare ai 288mila posti di lavoro recuperati in aprile, vede Bush inchiodato ad Abu Ghraib. È il segno che la fatica per circoscrivere l´infezione scaricando tutto sulle "mele", è giustamente vissuta come una battaglia per la sopravvivenza politica. "Questa - deve pur dire - è una macchia sull´onore dell´America".
Bush è prima di tutto un´immagine, è il prodotto d´una brillante opera di fiction politica costruita dal regista elettorale Karl Rove che aveva allagato di spot le tv americane in aprile per stroncare sul nascere la minaccia Kerry.
Ma gli almeno 70 milioni di dollari spesi per illustrare le virtù morali del condottiero senza macchia e per denigrare l´ondivago e grigio John F. Kerry, sono stati spazzati via in pochi minuti da quelle foto vere destinate a divenire la rappresentazione iconica indelebile di questa guerra. Per un´amministrazione che aveva evitato di associare il presidente anche alle bare dei 750 militari caduti in Iraq, la vendetta delle immagini non sarebbe potuta essere più feroce. Nessuno meglio di questo gruppo, conosce, sfrutta e dunque ora patisce, la forza delle "icone". Alza la testa il nemico mortale del moralismo messianico, l´ipocrisia.
La claque repubblicana plaude alla notizia che anche ieri Gallup dà Bush e Kerry in perfetta parità statistica, 49 per Kerry, 48 per Bush. Se, dopo l´aprile che ha visto il picco di soldati uccisi e ora la catastrofe delle sevizie su carcerati innocenti e infatti già liberati, Bush regge, deve essere anche lui avvolto, come il suo idolo Reagan, nel teflon antiaderente, si rassicurano i fedeli. E l´avversario Kerry appare, finora, incapace di mordere e di far male. Kerry non ha ancora traction come si dice nel gergo elettorale, non "prende", non riesce neppure ad approfittare della debolezza più evidente nel circolo della carovane attorno a Bush, la pretesa - o peggio, la realtà - che nessuno, alla Casa Bianca, sapesse niente fino allo scoop della Cbs e nessuno li avesse avvertiti della tempesta in arrivo.
Il paradosso apparente, che nella storia politica americana è invece la norma, dice che più il disastro iracheno aumenta, più irriducibile si fa il support di un presidente che pure annaspa alla ricerca di una via d´uscita da Bagdad e flip-flops, brancola nel giorno per giorno tra soluzioni ed esperimenti diversi. Il sostegno, come una molla schiacciata dalle cattive notizie, si comprime e si indurisce, prima di spezzarsi eventualmente sotto la pressione. Giova inizialmente al proprio candidato, come già avvenne con il Nixon del Vietnam, prima di distruggerlo se la pressione non si allenta.
Ma i segni che la pressione potrebbe diventare presto insopportabile anche per coloro che difendono Bush per difendere se stessi, si intravvedono. Sulle pagine del Weekly Standard, il settimanale neocon che è "lettura obbligatoria" alla Casa Bianca, William Kristol esprime tutto il nervosismo di questa corrente in rapida perdita di credibilità, e che non vuole restare a reggere il cerino. Kristol accusa l´amministrazione (cioè Rumsfeld) di avere imboccato ormai la strada sbagliata e invita Bush a scaricare una politica sbagliata (Rumsfeld?), e anticipare a subito, "un´elezione popolare in Iraq", perché anche "un´elezione inattendibile è meglio di un governo di tecnici nominati dall´Onu". Sottinteso: per potersene andare, cantando vittoria. Segni di crisi nervosa appaiono anche nei commentatori neocon più seri, come Charles Krauthammer, che sul Washington Post attribuisce il comportamento delle soldatesse nel carcere alla "liberazione femminile" che rende l´Occidente superiore comunque all´Islam che "invece umilia le donne".
Per ora, mentre Washington attende di vedere il "peggio", il problema del giorno è creare un barriera che separi le "mele marce" da chi le comandava, mantenendo lo show della democrazia in azione. Bush lo deve ripetere ogni giorno: Abu Ghraib è l´aberrazione di pochi, non un male sistemico, mi scuso, sorry, ma questa non è l´America. La follia di qualche soldatina strappata alla provincia non ferma il "progetto per dare democrazia all´Iraq" (Bush). Andranno forse in carcere i piccoli, per salvare i grossi, anche quella Sabrina Harman, una delle incriminate, che scrisse orgogliosa a grandi lettere e in stampatello sulla schiena di un ammucchiato: RAPEIST, stupratore, sbagliando anche l´ortografia, RAPIST.
Il guaio è che le "mele marce" parlano, come ha parlato Sabrina, per farci rabbrividire nella memoria del classico "noi ubbidivamo agli ordini", per dire che loro, gli "aguzzini", lavoravano sotto precise istruzioni di "far sentire l´inferno" a detenuti che i superiori descrivevano a loro come quelli dell´11 settembre. E che le tecniche di "ammorbidimento", impiegate nelle segrete di Saddam "riaperte sotto nuova gestione" non erano affatto aberrazioni, ma procedura ordinaria in patria. Il contractor appaltatore delle galere in Iraq, era l´ex direttore di un penitenziario nello Utah, Lane McCotter, scrive il Times di Londra. McCotter era stato licenziato nel '97 dallo stato dello Utah. La causa: sevizie sui detenuti e morti sospette. A lui un bel contratto del Pentagono, a Sabrina, la mela marcia, la corte marziale.

albero spoglio, uccelli in lotta, cicogna sul nido
  
Ehi, come mai tante mele marce?
Alessandro Robecchi su
il Manifesto 9 maggio

Il partito americano italiano sembra un po' in difficoltà, c'è da capirlo. Se ammazzi la gente con la scusa di portare la democrazia, non puoi farti le foto ricordo nel lager, vestito da kapò con i prigionieri al guinzaglio. Niente paragoni storici, per carità, ma una cosa è certa: la tua credibilità di liberatore si offusca un bel po' se ti comporti come Kappler e hai la faccia di Rumsfield. La tesi prevalente, ora - scritta in un editoriale sul prevalente settimanale del premier e sua fanzine personale, l'unico settimanale che cotona i capelli al suo editore - sarebbe che si tratta di "mele marce". Sapete tutti com'è la storia: quando ti beccano io non ti conosco e tu sei una mela marcia, vergogna, mi rovini la reputazione, ti caccio a calci nel culo, chiedo scusa a tutti… e assumo subito un altro kapò. La tesi è così banale e fessa che non ci sarebbe bisogno di commentare: la faccia della signorina England, che tortura la gente per pagarsi il college, la dice già abbastanza lunga sulla qualità della vita che ci aspetta nel Nuovo Secolo Americano. Ed è comunque la faccia di una guerra persa.
Ma non demordo. Questa cosa delle mele marce m'interessa, è una teoria che mi affascina. Si potrebbe cominciare dall'inizio: i bianchi tanto devoti mettono piede sul continente e alcune mele marce sterminano la popolazione indigena e si prendono tutto. Passa qualche anno e alcune mele marce hanno una grande pensata: ehi, sarebbe meglio avere degli schiavi che farci il culo noi, no? Stando più vicino a noi, i liberatori cacciarono i cattivi dall'Europa, ma qualche mela marcia rase al suolo Dresda, per non dire di Hiroshima e Nagasaki di cui nessuno oggi si ricorda più. Le mele marce ricomparvero a My Lay e nelle cose più sporche del Vietnam. Mele marce vendettero armi all'Iraq, e poi all'Iran, e poi addestrarono squadroni della morte in tutto il sud e centro America, e aiutarono il generalissimo cileno, e pure gli argentini, in tanti Garage Olimpo che somigliano molto a Abu Ghraib. Mele marce fecero il massacro di Kandahar.
Non so i petrolieri del Texas, o i direttori di Panorama, ma un normale contadino si chiederebbe: come mai tante mele marce? La signorina England, il suo fidanzato e tutti gli altri torturatori di via Tasso, a Baghdad, esattamente, come sono marciti? Di lei si sa quasi tutto: è stata una ragazza normale fino a 17 anni, quando - per soldi e per girare il mondo - si è arruolata con lo zio Sam. Quattro anni di formazione che si vedono tutti. Le urlavano nelle orecchie come in Full Metal Jacket? Cento flessioni? Le facevano leggere la Fallaci? Dev'essere stato un training orribile. O forse basta prendere un ragazzino del midwest, mediamente povero, mediamente ignorante, e convincerlo che appartiene al popolo padrone del mondo, razza superiore, e che il suo potere è assoluto.
Le mele marce non sembrano per niente marce quando vanno ad arruolarsi. Uno lo fa per il college, uno per l'assistenza sanitaria, un altro per il mutuo della casa. Il soldato Jessica - che è "eroe" e non "mostro" - si era arruolata per fare la maestra. Ecco, a proposito di cose marce: preferirei una democrazia dove per fare la maestra non ti chiedono di sparare a nessuno. Mi viene in soccorso il noto ciccione della Cia dalle pagine del suo foglietto: "La tortura è dovunque, dunque in nessun luogo". Cioè: rubano tutti. Già sentita, tra l'altro, ed è una cosa che porta un po' sfiga.
Ma più che ricamarci sopra con la dialettica, è forse il caso di porre - per una volta - un vero problema politico: finché nessuno spiega bene cosa fa marcire le mele, la tesi delle mele marce non regge. E' il modello di sviluppo? E' la logica imperiale e tutte quelle pippe neocon sulla supremazia americana che tanto vanno di moda tra i dandy attempati e azzimati della destra italiana? Capisco l'ansia di liquidare come eccezione l'ultimo show nazi degli amici americani per cui si sbandiera tanto. Però, insomma, spiegare meglio. Essere più precisi. Argomentare. Signorini del partito americano d'Italia, queste famose mele marce da dove vengono, così numerose (e così tanto marce)? Non verranno per caso direttamente dall'albero?

temporale sulla montagna
  
Il caso Rumsfeld e l'amico italiano
Stefano Folli sul
Corriere della Sera 9 maggio

Non crediamo che il segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld, sia stato convincente davanti al Congresso. Le scuse offerte all'opinione pubblica sono il minimo che ci si poteva attendere, rispetto alla gravità dello scandalo di Abu Ghraib. Ma sono parole. In democrazia, quando si ammette una responsabilità, esiste un solo modo per essere credibili: pagare di persona. Rumsfeld ha escluso di farlo e ha accusato, anzi, i suoi avversari di voler alimentare "un caso politico" intorno alle rivelazioni sulle torture. Con ciò l'amministrazione americana, se davvero intende coprire e sostenere il segretario alla Difesa, dimostra di non aver compreso la gravità senza precedenti della vicenda in atto.

Tutto lascia presumere che il peggio in questa storia debba ancora venire a galla. Non solo riguardo alle efferatezze compiute e a chi ne era informato, ma soprattutto per le conseguenze, queste sì politiche, destinate a colpire in forme devastanti l'immagine dell'America e il suo sistema di relazioni. Perciò lo scandalo non è solo un affare interno agli Stati Uniti e alle sue forze armate, come si vorrebbe a Washington, ma tocca molto da vicino gli alleati. In particolare quelli, come la Gran Bretagna e l'Italia, che hanno condiviso i rischi dell'avventura irachena e si sono sforzati di vedere una strategia razionale nei comportamenti confusi e contraddittori della Casa Bianca.

Quel che Rumsfeld dice o non dice riguarda dunque anche i governi di Londra e di Roma. Nel momento in cui si accetta che la lotta al terrorismo costituisca la priorità assoluta, nel momento in cui si riconosce, giustamente, che gli Stati Uniti non devono essere lasciati soli, si acquisisce il diritto di essere ascoltati su un piede di dignitosa parità. Come alleati che hanno pagato un prezzo di sangue e rischiano ogni giorno. Nel segno di una spedizione che doveva essere di pace e si è trasformata in tutt'altro.

L'Italia può accettarlo. Può accettare di condividere fino in fondo la responsabilità di una missione volta a dare stabilità all'Iraq. Ma non può accettare che il ruolo dell'America, forza occupante, assomigli a quello della Francia in Algeria. Quindi, non può dichiararsi estranea al destino di Rumsfeld, l'uomo simbolo di una politica fallimentare che getta nello sconforto non i nemici degli Stati Uniti, bensì i suoi amici. Il ministro degli Esteri Frattini ha detto che l'Italia vuole coinvolgere i Paesi arabi moderati in un grande disegno strategico. Ottima intenzione: ma come pensa di riuscirci se Rumsfeld resta al suo posto e se ogni giorno i siti Internet offrono ai giornali di tutto il mondo una serie inesauribile di immagini stomachevoli, umilianti per qualsiasi arabo e per ogni musulmano? Il discredito dell'amministrazione Bush finirebbe per abbattersi sugli alleati, soprattutto quelli che si vantano di essere in prima fila.

Come ha scritto un commentatore americano, Bin Laden ha ottenuto con lo scandalo delle torture una vittoria più grande di quella che spuntò l'11 settembre. C'è una sola strada: che Rumsfeld lasci il suo posto. L'Italia, non meno della Gran Bretagna di Blair, deve utilizzare tutti i suoi canali diplomatici e premere sulla Casa Bianca. Nessuno potrebbe dubitare dell'amicizia del governo Berlusconi verso l'attuale amministrazione. Proprio per questo, la nostra voce avrebbe qualche probabilità di essere ascoltata. Manca meno di un mese al 60° anniversario della liberazione di Roma. Non lasciar sola l'America vuol dire anche aiutarla a ritrovare se stessa, insieme a un po' dello spirito di quei giorni lontani. Il primo passo è che Rumsfeld lasci il Pentagono. Per il bene dell'America e dei suoi amici nel mondo.

paesaggio di rocce, albero contorto
  
I confini della nuova Europa
Barbara Spinelli su
La Stampa 3 maggio

Il nuovo-continente Europa che abbiamo visto nascere l'altro ieri a Dublino assomiglia molto poco alla prima Comunità che si formò nel 1951, quando tra sei Paesi fu creato il mercato comune del carbone e dell'acciaio. A causa dei più ampi confini e della dimensione continentale che possiede, a causa dell'internazionalizzazione dell'economia mondiale, a causa della metamorfosi che contraddistingue oggi il suo rapporto con l'America, l'Unione a Venticinque (e domani a 27 o 28) è votata a un destino più vasto, e profondamente diverso.

È un destino non più introspettivo, concentrato sulla riconciliazione tra nazioni europee secolarmente nemiche come accadde tra Francia e Germania, ma è un destino estroverso, che va oltre il continuo esame di coscienza casalingo cui eravamo abituati negli anni in cui la nostra sicurezza era tutelata da Washington. L'eredità della vecchia cultura non perde valore, ma l'Europa ha ormai la forza numerica e la statura per diventare un'Europa strategica, interessata alle sorti del mondo e responsabile di queste sorti.

La vecchia Europa è servita come modello di rappacificazione tra Paesi che storia e cultura avevano diviso. La nuova Europa strategica può servire come modello di nation-building su scala mondiale, di ricostruzione di nazioni minacciate dall'arretratezza economica, dalla corruzione delle classi dirigenti, dall'anarchia istituzionale, dai conflitti fra etnie e integralismi religiosi, dal terrorismo. Il presidente della Commissione europea Romano Prodi, che in tutti questi anni ha sottoposto gli europei orientali a un accanito, meticoloso esame di maturità economico, istituzionale, democratico, non ha torto quando dichiara che l'Unione si può presentare al mondo con un modello - vincente - di esportazione della democrazia.

Molti hanno paura di queste nuove dimensioni, di questi nuovi compiti, e della nuova cultura politica, delle nuove regole istituzionali, dei nuovi mezzi finanziari che occorrerà dare a se stessi per essere all'altezza dei compiti mutati. Per questo ci si concentra spesso su vantaggi e svantaggi economici dell'allargamento, quasi non si volessero vedere le dimensioni strategiche che caratterizzano a partire da oggi l'Unione.

Per questo si accumulano obiezioni, scetticismi, e alcuni (è il caso della rivista americana Newsweek) parlano addirittura d'un allargamento che metterà fine al sogno di un'Europa politica: non è la prima volta che i difensori d'un ordine vecchio dicono che il nuovo non ha opportunità di affermarsi, per il semplice motivo che gli occhiali che essi usano per guardare il nuovo hanno lenti vecchie. Se inforcassero gli occhiali nuovi, vedrebbero che l'Europa più grande non potrà che occuparsi di quel che accade intorno a essa, e di un retroterra che dopo l'allargamento si fa più difficile, impaurente. A Est l'Unione confina ormai con Stati pericolanti come Ucraina, Bielorussia, e soprattutto con la Russia, che è una potenza militare e al tempo stesso uno Stato debole, invischiato in un'interminabile guerra coloniale contro l'indipendentismo ceceno. A Sud-Est confina con la Turchia, che la Comunità considera "parte dell'Europa" fin dal '63 (così si espresse Walter Hallstein, presidente della Commissione).

Attraverso Cipro e Malta l'Unione è più vicina a Mediterraneo e Medio Oriente.

Di queste zone eravamo responsabili anche prima, ma l'Europa della guerra fredda era sotto custodia. La potenza Usa era non solo il nostro garante, ma il nostro federatore: il piano Marshall, che ci permise di uscire dai disastri della guerra, aveva come condizione che gli europei s'unissero. Questa strategia statunitense è finita, e non il sogno dell'Europa politica. Altri Presidenti verranno dopo Bush, che preferiranno dividere l'Europa piuttosto che federarla, e dunque spetta a noi soltanto, ora, trasformare l'Unione nel soggetto mondiale che non è ancora.

Tutto sta a vedere come affronteremo questo compito, e come ci prepareremo a quella che è divenuta una necessità oltre che un'opportunità. Tutto sta a vedere se saremo gettati nel vasto mondo come esseri ciechi e passivi (dunque se invocheremo in ordine sparso l'aiuto Usa) oppure se vi entreremo con occhi aperti, con nostri progetti, con le istituzioni che consentiranno all'Unione di contare, e di fronteggiare con spirito libero le leggi della necessità.

Darsi una nuova cultura politica, e i mezzi per sostenere una politica estera comune, vuol dire in essenza due cose. Primo, vuol dire far proprie le inquietudini di sicurezza delle nazioni dell'Est appena entrate, e non considerarle alla stregua di psicotiche "ossessioni". Se Bush ha potuto ingraziarsi Polonia e Repubblica Ceca, Ungheria e Baltici, è perché l'Unione non ha una politica verso i propri confini orientali e verso la Russia, e perché qui è la vera fonte di timori storici nell'Est europeo.

In secondo luogo, unificarsi e contare nel mondo vuol dire pensare quali sono i nostri confini, e di che natura essi debbano essere. Un giorno si deciderà, forse, se l'Europa deve o non deve menzionare le proprie origini cristiane. Ma fin da ora sappiamo gli ingredienti, di cui l'Unione deve esser fatta per non disfarsi: gli ingredienti che già oggi la definiscono, e che in futuro possono darle potenza. Tra questi ingredienti ci sono lo Stato di diritto, il pluralismo, l'appartenenza a una storia europea: sono condizioni imprescindibili, per futuri candidati. Ma non meno imprescindibile è la rinuncia a parti sempre più consistenti delle sovranità nazionali, da parte di tutti o quasi tutti: oggi nel commercio e nella moneta, domani - è sperabile, vista l'enormità dei compiti - in politica estera e di difesa. Questa rinuncia sarà regolata dalla Costituzione, che fisserà le sovranità della federazione, delle nazioni, delle regioni. E che non sarà una Costituzione immobile, perché altri trasferimenti di sovranità s'imporranno in avvenire.

L'Unione a 25 ancora deve fare passi importanti sulla strada di queste rinunce, per poi imporle a futuri candidati. Per questo è così difficile oggi iniziare un negoziato d'adesione con la Turchia. Per questo è impossibile aprire l'Unione a Israele e Palestinesi, che s'opporrebbero a ogni delega di sovranità.

Questi sono oggi i veri confini d'Europa: sono confini costituzionali, oltre che frontiere che s'incarnano in valori condivisi. Sono confini che consistono in regole di decisione, e la loro forza dipende dalla potenza di simili regole. Sono questi confini che permettono di dire: non è la gran quantità di Paesi che impedisce l'unità politica, ma l'assenza di regole davvero efficaci e l'uso eccessivo del diritto di veto. È un'assenza che paralizzava l'Europa dei Quindici, come rischia di paralizzare l'Europa dei venticinque. Entrare nell'Unione significa accettare che questo confine fatto di regole si rafforzi negli anni a venire, e interiorizzare il limite posto agli Stati-nazione. Questo hanno dovuto accettare i candidati, prima dell'allargamento.

Per parlare al mondo musulmano, l'Europa ha bisogno della Turchia. Per pesare in Medio Oriente, ha bisogno di legare a sé Israele e la rappresentanza palestinese: ne ha bisogno e ne ha il dovere, visto che la storia d'Europa è direttamente responsabile di quel che accade in Israele e Palestina. Con questi Paesi l'Unione dovrà trovare il modo di allearsi, ma senza garantire subito un ingresso.

L'adesione avverrà a ben precise condizioni, quando gli Stati in questione avranno veramente riflettuto sulla propria storia e ne vorranno costruire un'altra, fondata non più sulla forza solitaria e assoluta dello Stato-nazione ma sul senso del limite, sull'accettazione di autorità e leggi superiori alle autorità e alle leggi nazionali, e sulla scoperta che questa rinuncia è la stoffa di cui è fatto il modello europeo, quando funziona.

bambino con antilope al guinzaglio
  
L'Asia insidia il primato USA
Brevetti, invenzioni, formazione universitaria
Federico Rampini su
la Repubblica 4 maggio

Vacilla l´ultimo pilastro della leadership americana nel mondo, il primato nella scienza. L´Asia tallona la supremazia degli Stati Uniti anche in questo campo: brevetti, scoperte, invenzioni, formazione universitaria. Dopo aver svuotato "dal basso" l´industria tecnologica americana, portandole via le mansioni operaie, le potenze asiatiche ora alzano il tiro e lanciano la sfida a un livello superiore. Le aiuta involontariamente la guerra di George Bush al terrorismo: le restrizioni ai visti negli Stati Uniti incoraggiano un´emigrazione alla rovescia, il "ritorno dei cervelli" in Cina e in India, due giganti in pieno boom economico. Anche l´esplosione della spesa militare americana è sotto accusa perché sacrifica gli investimenti pubblici nell´istruzione. Una responsabilità a parte spetta all´integralismo religioso del presidente, che ostacola la sperimentazione scientifica in campi come le cellule staminali.
Il New York Times apre la prima pagina con questo allarme: "U.S. is losing its dominance in the sciences", gli Stati Uniti stanno perdendo il loro dominio nelle scienze.
Il quotidiano denuncia la sottovalutazione generale delle "conseguenze per l´occupazione, l´industria, la sicurezza nazionale o il dinamismo della vita culturale del paese". "Il resto del mondo ci sta raggiungendo", conferma John Jankowski della National Science Foundation, l´agenzia federale che studia proprio i trend della scienza. L´allarme è fondato su dati e indicatori precisi. Una misura della competizione internazionale nel sapere è il numero di brevetti. Qui gli Usa conservano una lunghezza di vantaggio su tutti, ma il margine si assottiglia di anno in anno, con un calo dal 60 al 52% in un ventennio, mentre in alcuni settori specifici i paesi asiatici sono già passati in testa.
Un altro indicatore che gli esperti guardano con attenzione è il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche. Qui il sorpasso è già accaduto. Nella fisica, per esempio, gli studi americani sono caduti dal 61% del totale vent´anni fa, al 29% oggi. Il direttore della Physical Review, Martin Blume, rivela che la Cina è ormai passata in testa con più di mille studi presentati all´anno, e afferma che lo stesso sta accadendo in altre discipline avanzate.
Il New York Times cita Diana Hicks del Georgia Institute of Technology, secondo cui il ritmo dell´ascesa asiatica nella scienza e nell´innovazione tecnologica "è incredibile, studi e brevetti salgono in modo stupefacente". Il giornale mette sotto accusa il provincialismo di un´America che si crede il centro del mondo, e talvolta ignora i progressi altrui. Ricorda l´esempio delle missioni su Marte: la notizia che la sonda europea ha individuato tracce di metano nell´atmosfera è stata ignorata dai mass media americani, troppo intenti a esaltare le prodezze della missione Nasa.
L´opposizione democratica cavalca l´allarme, il capogruppo al Senato Tom Daschle parla di un "momento di svolta", in cui si moltiplicano "i segni che il primato americano nel mondo scientifico è scosso". La proliferazione delle spese militari in passato ha avuto effetti benefici anche sul progresso tecnologico, e tuttora la ricerca a scopi bellici riceve 66 miliardi di dollari di finanziamenti all´anno. Ma il peso della guerra in Iraq sui deficit pubblici costringe a tagli dolorosi e gravidi di conseguenze in altri campi: 21 agenzie federali su 24 che si occupano di ricerca scientifica hanno visto i propri bilanci decurtati, le tre che si salvano sono quelle che si occupano esclusivamente di missioni spaziali e sicurezza nazionale.
La priorità alla sicurezza si ritorce contro la scienza in un altro modo. Una conseguenza dell´11 settembre è stato il giro di vite sulle procedure per i visti d´ingresso agli stranieri. I nuovi controlli hanno allungato a dismisura i tempi di rilascio anche per i visti di studio. Questo rallenta e ostacola l´arrivo di quei talenti stranieri - docenti, ricercatori o studenti - che da sempre contribuiscono alla forza delle università americane. Il numero di laureati stranieri che hanno presentato domanda per un dottorato di ricerca negli Usa nel prossimo anno accademico è sceso del 25%. Pochi giorni fa un summit d´emergenza ha portato i rettori delle principali università americane alla Casa Bianca, per tentare di porre un riparo a questa emorragia di cervelli. Ma la paura di attentati e l´inefficienza dell´Immigration Service hanno creato un collasso burocratico da cui è difficile uscire in tempi rapidi.
L´impatto negativo della nuova politica dei visti coincide con una fase in cui emergono come nuovi poli d´attrazione la Cina e l´India, due tradizionali serbatoi d´emigrazione qualificata verso gli Usa. Negli anni ?90 un terzo delle nuove imprese fondate nella Silicon Valley - il centro californiano delle tecnologie avanzate - era stato creato da imprenditori-scienziati di origine asiatica. Oggi una parte di loro stanno tornando a casa, attirati dall´opportunità di usare la propria esperienza americana nella "nuova frontiera" del boom asiatico. Ormai per molti giovani laureati provenienti da Cina, India, Corea, Taiwan, anche se hanno già in tasca il visto Usa la prospettiva è cambiata. Un dottorato a Berkeley, Stanford o Harvard è solo una tappa prima di tornare a far carriera in patria, non l´anticamera dell´emigrazione negli Stati Uniti. A questa inversione di tendenza contribuiscono le stesse multinazionali americane. Da Ibm a Microsoft, da Intel a Hewlett Packard, tutte investono in Cina non più solo per crearvi fabbriche con manodopera a buon mercato, ma per costruire centri di ricerca avanzata, design, progettazione. La grande paura americana dell´offshoring assume di colpo un significato nuovo. Non sono solo posti di lavoro che vengono trasferiti sull´altra sponda del Pacifico, ma la stessa ricetta-chiave della leadership americana nel mondo. Giappone, Taiwan e Corea del Sud già rappresentano da soli un quarto di tutti i brevetti industriali registrati sul mercato americano, Cina e India sono sulla buona strada. "Ci stanno raggiungendo - dice la vicepresidente del Council on Competitiveness, Jennifer Bond - e gli americani farebbero bene a non addormentarsi sugli allori".

il palazzo ducale visto dalla laguna
  
Il conflitto di interessi
Quella promessa vecchia di 960 giorni
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera 5 maggio

"L'unico problema d'incompatibilità che mi pongo è quello tra Laudrup e Raducioiu". Dieci anni dopo la battuta sui due calciatori con cui liquidò lo spinoso tema, Silvio Berlusconi può brindare. E mentre festeggia con 79 il record di punti del Milan e con 1.060 giorni il record della permanenza a Palazzo Chigi, può levare il calice a un terzo primato.

È scaduta da 960 giorni la sua promessa di risolvere il conflitto d'interessi eppure anche gli avversari più duri sembrano stremati dai rinvii: uffa! Il progetto di legge, sepolto da tempo biblico alla Camera sotto centimetri di polvere, muffe e ragnatele dove ormai rischiava di poter essere datato dagli storici solo col carbonio 14 usato per i manoscritti di Qumran, è stato anzi recuperato, spolverato e perfino messo in una ipotesi di calendario per la fine del mese, giusto un attimo prima della sospensione (ahi!) per le elezioni europee. Prova provata che forse non aveva torto il nostro Montanelli che, un paio di mesi prima di andarsene, scommetteva: "Il conflitto di interessi in Italia non sarà mai, mai, mai risolto. E speriamo che non venga davvero mai risolto, perché se lo risolvessero lo farebbero con una tale patacca da farci arrossire di fronte al mondo intero".

Eppure, pochi giorni prima del voto del 13 maggio 2001, indignato per la diffidenza di chi temeva che una volta eletto l'avrebbe tirata per le lunghe, il Cavaliere aveva dato al Sunday Timesla sua parola d'onore: "Presenterò un disegno di legge entro i primi 100 giorni al Governo. Ho nominato tre esperti internazionali per trovare una soluzione. C'è un americano, un britannico e un tedesco". Una settimana dopo, aveva solennemente ribadito al Costanzo Show : "In cento giorni farò quel che la sinistra non ha fatto in sei anni e mezzo: approverò un disegno di legge che regolamenterà i rapporti tra il Presidente del Consiglio e il gruppo che ha fondato da imprenditore". Dopo l'insediamento, stizzito da chi già gli contava le settimane, aveva insistito: "Ho preso un impegno a dare una soluzione entro i primi cento giorni, cosa che faremo sicuramente". Quando? "Immagino addirittura prima delle ferie estive". Ma questi misteriosi esperti? "Vogliono mantenere l'anonimato". Mantenuto.

Certo, il capo del governo sa bene che perfino quanti gli sono vicini hanno ammesso in questi anni l'esistenza del problema. Giuliano Ferrara l'ha bollato come "un adorabile mattocchio che non conosce i confini tra i soldi, la politica, la legge e il teatro". Lucio Colletti ha ironizzato che "può porgere il polso a Costanzo perché senta l'odore di santità ma non pretendere che il conflitto di interesse non esista". E addirittura Fedele Confalonieri ha confessato prima che "il conflitto di interessi tra il Berlusconi politico e il Berlusconi imprenditore è arrivato purtroppo al massimo grado", poi che "il conflitto esiste e lui non può risolverlo dicendo "sono affari miei, sarò un autocrate illuminato alla Federico II di Prussia"".

Lui, però, presta orecchio ma non se ne è mai fatto una ragione: "La storia del famoso conflitto d'interessi non sta veramente in piedi. Chi sta a Palazzo Chigi potere non ne ha. Impossibile favorire se stessi o le proprie aziende. Anzi, si può danneggiarle, come è successo a me in moltissime occasioni: ogni volta che c'era anche solo un dubbio del genere, ho sempre scelto l'altra strada". Oddio, non può negare che in questi anni così cupi per le imprese italiane la sua Mediaset sia andata splendidamente nonostante lui sia al governo. Lo dicono i bilanci orgogliosamente diffusi alle convention aziendali: nel 2002 rispetto al 2001 la crescita degli utili è stata del 70,8% e nel 2003 rispetto al 2002 i ricavi sono saliti del 32% e il risultato operativo si è impennato del 47%. Quanto al 2004, grazie "alla maggior raccolta di ricavi concessa al gruppo Mediaset e a Mondadori dal Sic" previsto dalla "Gasparri", dovrebbero entrare nelle casse berlusconiane secondo lo stesso Confalonieri un paio di miliardi di euro in più. In vecchie lire, per usare l'unità di misura cara al Cavaliere, circa 4 mila miliardi. Insomma, affari d'oro.

"Ma io che c'entro?", rispose qualche mese fa quando gli chiesero della legge "di riordino del sistema radiotelevisivo". Non c'è verso di convincerlo. Prima o poi, per carità, magari la farà la legge che le opposizioni e i giornali stranieri gli chiedono. Ma senza passione. Anche se i soliti puritani gli ricordano che appena ministri Sidney Sonnino si affrettò a vendere tutte le azioni lasciategli dal padre riconvertendole in buoni del tesoro e Quintino Sella si liberò dell'industria tessile famigliare, lui è fermamente convinto che il problema non è così impellente: "Il conflitto d'interessi se lo sono inventato i miei avversari". Primo, perché "ai cittadini non interessa niente, anzi lo considerano una garanzia assoluta che chi ha la responsabilità di governare non abbia bisogno di fare i propri interessi, insomma di rubare, disponendo comunque di una posizione propria". Secondo, perché lui il problema l'ha già risolto.

L'ha detto e ridetto mille volte, alla vigilia di ogni passaggio elettorale o referendario: "Questa storia delle riserve personali su di me è una barzelletta. Distinguerò con nettezza adamantina il mio ruolo di imprenditore, che peraltro è già alle mie spalle, e quello di leader politico. Ho messo fatti che pesano come macigni a suffragare questo impegno". "Della Fininvest terrò solo il 30%, una quota di minoranza. S'era pensato anche di vendere tutto ma si sono opposti i miei figli". "Sto pensando seriamente di cedere la Fininvest ai miei cinque figli e agli amici di una volta". "Ho dato incarico ai miei manager di avviare le dismissioni di mie proprietà". "Sono pronto a vendere qualche azienda non strategica e, se trovo qualcuno disposto a comprarla, persino una rete tv". "Sono pronto a vendere le mie aziende, ad andare anche oltre il blind trust americano. La mia vita di imprenditore si sta concludendo". "Oggi vi annuncio che ho deciso di vendere le mie aziende: non sarà facile trovare un compratore, ma andremo in Borsa con la televisione e terrò una quota assolutamente non di maggioranza". Detto e ridetto. Ma perché, perché non gli credono?

vele gonfie in laguna
  
L'altra Grecia, quella vera
Piergiorgio Odifreddi su
la Repubblica 9 maggio

In un famoso saggio degli anni Cinquanta, I Greci e l´irrazionale, Eric Dodds intendeva mostrare l´altra faccia della cultura greca: quella delle superstizioni religiose, delle favole mitologiche, dei riti sciamanici, delle orge bacchiche, dei deliri pitici, delle previsioni astrologiche, delle cure magiche, delle interpretazioni oniriche... In una parola, la versione greca del buio che da sempre regna nell´emisfero destro del cervello dell´uomo, contrapposto alla luce che risplende in quello sinistro.
Ironicamente, però, l´altra faccia della Grecia mostrata da Dodds non era molto diversa, se non nelle sfumature, da quella mostrata da Bruno Snell in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, un altrettanto famoso saggio di quegli stessi anni, percepito appunto (ad esempio, dal Momigliano) come antitetico al precedente. A chi la guardi dall´esterno, invece che dall´interno, è infatti l´intera cultura umanistica greca ad apparire irrazionalista, sia pure in versione più o meno hard o soft, a seconda degli aspetti sui quali ci si concentra.
Ad esempio, che tipo di uomo descrivono l´Iliade e l´Odissea? Un uomo che, non a caso, Julian Jaynes ha diagnosticato in Il crollo della mente bicamerale e l´origine della coscienza come letteralmente schizofrenico. Un uomo che antropomorfizza la propria voce interiore e il proprio inconscio sotto forma di dèi, che gli appaiono quotidianamente in forma visibile e udibile, e coi quali egli conversa e discute in palese dissociazione mentale. Un uomo oggi internato nei manicomi o nei conventi, ma che allora evidentemente circolava in libertà per le strade.
E che modello di uomo propongono, invece, i Dialoghi platonici? Un uomo che, nel Fedro, dichiara esplicitamente che "i beni più grandi ci vengono dalla pazzia", e riconosce come oggettivi addirittura quattro tipi di "divino furore": profetico, rituale, erotico e poetico, rispettivamente ispirati da Apollo, Dioniso, Afrodite e le Muse. Un uomo che candidamente confessa di sentire la voce di un daimon personale, inibitivo e proibitivo, al quale anche oggi noi dovremmo continuare a credere e dare ascolto, secondo "psicologi" come Hillmann e "libri" come Il codice dell´anima.
Questa è dunque la Grecia che ci viene presentata in opere che, lungi dal costituire oggetti d´analisi nei reparti di psichiatria e neurologia, rimangono invece soggetti di studio nei dipartimenti di letteratura e filosofia. Con buone ragioni, naturalmente, perché educando all´irrazionalità si concima il terreno sul quale attecchiscono e prosperano, ad esempio, le redditizie imprese della religione e della magia. Non è un caso, dunque, che Giovanni Reale rilegga, in Corpo, anima e salute, Omero e Platone come tappe di un percorso che porta dritto al cristianesimo, e che Giuseppe Bertagna imponga, per la controriforma della scuola inferiore, la cancellazione dell´evoluzionismo dai programmi per "dare spazio al mito e ai racconti delle origini".
Ma, come la Luna, anche la cultura greca ha una faccia nascosta, pari in estensione e interesse a quella perennemente visibile dell´irrazionalismo umanistico. E´ la faccia del razionalismo scientifico, senza il quale non sarebbe possibile la tecnologia che domina la vita di tutti noi, irrazionalisti compresi, e che costituisce la vera radice della nostra civiltà: l´unica che avrebbe veramente senso citare nella futura Costituzione Europea, se questa non venisse scritta sulla base degli strilli dei partiti e dei lamenti delle chiese.
E come sulla faccia visibile della cultura greca svettano l´Iliade e l´Odissea di Omero e i Dialoghi di Platone, così su quella nascosta si ergono maestose le prime sistemazioni della matematica e della logica occidentali: gli Elementi di Euclide e l´Organon di Aristotele, che oppongono i fatti di una cultura alle interpretazioni dell´altra. E questi fatti non sono soggettivi racconti di guerra o di viaggio, né personali opinioni etiche o morali, ma oggettive e impersonali descrizioni di precise scoperte, destinate a rimanere immutabili, e rimaste immutate, nei secoli.
Per non rimanere nel vago, consideriamo ad esempio la visione che avevano del mondo i razionalisti greci di più di due millenni fa. Naturalmente sapevano che la Terra è rotonda, per motivi sia diretti che indiretti: dalla forma dell´ombra che essa proietta durante le eclissi di Luna, alla graduale sparizione delle navi all´orizzonte. Persino le dimensioni terrestri erano note con ottima precisione, grazie alla proporzione stabilita da Eratostene tra l´intera circonferenza e il suo arco compreso tra Alessandria e Siene (vicina all´odierna Assuan), da lui valutato in base ai cinquanta giorni necessari per andare in cammello tra le due città. La proporzione era stata calcolata misurando l´ombra di un bastone ad Alessandria nel giorno del solstizio d´estate, quando si sapeva che a Siene l´ombra sarebbe stata nulla perché i raggi di Sole entravano a perpendicolo in un pozzo: una meravigliosa combinazione di teoria e pratica, che portò a una stima corretta di circa 40.000 chilometri per la circonferenza terrestre.
Ancora più stupefacente, perché basata sulla pura deduzione, fu l´intuizione dell´esistenza dell´America da parte di Ipparco. Egli la dedusse dalla notevole diversità delle maree degli Oceani Atlantico e Indiano, osservate dagli esploratori che si erano spinti da un lato verso l´Europa settentrionale nella spedizione di Pitea, e dall´altro verso l´Asia al seguito di Alessandro Magno: diciassette secoli prima di Cristoforo Colombo, e a differenza di lui, Ipparco aveva già capito che maree così diverse impedivano all´oceano a ovest di Gibilterra di essere lo stesso che stava a est dell´India, e che le due masse d´acqua dovevano essere divise da un immenso continente che le separasse come compartimenti stagni.
Per buona misura, e usando solo gli scarsi dati astronomici disponibili, Ipparco riuscì anche a dimostrare la precessione degli equinozi: quello, cioè, che Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend chiama "il più grandioso dei fenomeni celesti". Grandioso o no, il moto a trottola dell´asse terrestre rende comunque sbagliati di una casa tutti i segni zoodiacali oggi usati per i loro oroscopi dagli astrologi del mondo intero, ancora fermi alle case in voga nell´antichità: con quanta accuratezza per le loro "previsioni", si può facilmente immaginare.
Ma, almeno, gli astrologi si limitano a turlupinare gli allocchi, senza pretendere di imprigionare, torturare e bruciare sul rogo le persone intelligenti e i loro libri. La Santa Inquisizione, invece, imbastì quattro secoli fa idioti processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei, accusati di sostenere che la Terra girava intorno al Sole, e non viceversa: cosa già nota ad Aristarco nel terzo secolo prima dell´Era Volgare, e usata da Archimede nell´Arenario. E poiché nessun regime o ideologia ha il monopolio della stupidità, anche Aristarco era stato accusato dagli stoici di aver minato le fondamenta della religione e dell´astrologia: d´altronde, già nel 432 prima dell´Era Volgare dubitare del soprannaturale e insegnare l´astronomia erano divenuti ad Atene reati perseguibili penalmente.
Oggi, naturalmente, anche i "selvaggi del Madagascar" sanno che la Terra è rotonda e gira attorno al Sole, o che esiste l´America, ma questo non basta alla maggioranza per dedurre che non sono i racconti, i miti e le superstizioni a descrivere correttamente il mondo, bensì la scienza, la matematica e la logica. D´altronde, poiché la statistica ci dice che metà della popolazione ha un´intelligenza inferiore alla media, dobbiamo attenderci che essa si impegni a rendere il più dura possibile la vita all´altra metà, che fa invece il possibile per rendere la vita meno dura per tutti. In fondo, come osservava Coleridge in una Conversazione a tavola, tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici, cioè razionali o irrazionali: le opinioni e le interpretazioni difficilmente interesseranno i primi, e i fatti e le dimostrazioni non convinceranno mai i secondi.

donna sui gradini
  
Giuro di dire la falsità
Marco Travaglio su
l'Unità 30 aprile

Clemente Mastella e, sul Giornale, Francesco Damato, hanno trovato da eccepire sulla presenza di Stefania Ariosto alla convention della lista Di Pietro-Occhetto. Quest'ultimo ha detto che è stupefacente la polemica sulla "strana coppia" Tonino-Achille: "Fa scandalo che io stia col giudice, non che Mastella stia col ladro ". Allusione neppure tanto velata all'ingresso nell'Udeur del condannato Cirino Pomicino, in procinto di essere esportato a Bruxelles come numero due della lista mastelliana al Sud. Replica di Mastella: "Fra l'intelligenza fantasiosa di Pomicino e le virtù nascoste della signora Ariosto, preferiamo Pomicino". Risposta demenziale. Sia perché la Ariosto non è candidato, Pomicino sì; sia perché la Ariosto è incensurata, Pomicino no. Confondere una testimone che non ha mai negato l'appartenenza a un certo mondo romano, ma che ha pagato prezzi altissimi per averlo abbandonato, aiutando i giudici e gli italiani a liberarsi di una banda criminale dedicata alla compravendita della giustizia, con un signore che sgraffignava allegramente fondi neri, pubblici e privati, per ingrassare il suo potere, è tipico del manicomio organizzato in cui viviamo. E non c'è solo Mastella. Il suo ex gemello, Pierferdinando Casini, già presidente della Camera, nel settembre scorso si avventurò su un terreno analogo, mettendo sullo stesso piano Ariosto e IgorMarini, cioè un teste che dice la verità e un truffatore che racconta balle a comando e che per questo era appena finito in carcere. Casomai Mastella e Casini avessero perduto la memoria, va ricordato che Stefania Ariosto è la donna che nel dicembre del '95, mentre testimoniava in segreto dinanzi a Ilda Boccassini (ma Berlusconi &C lo avevano miracolosamente saputo), ricevette come regalo di Natale un pacco anonimo con un biglietto affettuoso ("Tanti auguri, Stefania") e una strenna davvero delicata: una testa mozzata di coniglio che galleggiava nel sangue. Quando poi la notizia della sua collaborazione divenne ufficiale, nel marzo 1996, per mesi e mesi la signora fu bersaglio di linciaggi pubblici e minacce private. Il forzista Piero Di Muccio la chiamava elegantemente "Pompadour "; Berlusconi "mitomane"; Biondi "esaltata "; Pisanu "boccuccia di rosa"; il Foglio e Ombretta Colli "informatrice della polizia"; Luciano De Crescenzo "donna squinternata, malata di protagonismo e del complesso di Erostrato"; Silvana Previti "serial killer e avventuriera ". La moglie di Cesare giurava che "la Ariosto non ha mai messo piede al Circolo Canottieri Lazio, dunque non può aver visto nulla, e comunque è molto miope" (la Ariosto, denunciata dalla signora Previti, fu poi assolta: frequentava il circolo e ci vedeva benissimo, con gli occhiali). Il meglio lo diede Domenico Contestabile, addirittura vicepresidente del Senato: "È una mitomane - assicurò - dice di avere avuto tre figli morti ma non è vero niente". Invece era vero: Stefania Ariosto ha perduto tutti e tre i suoi figli (Alfonso, Fabio e Domizia) per una grave malattia congenita. Contestabile non ha mai chiesto scusa: è stato condannato a risarcire i danni morali alla signora, che fu costretta a portare le fotografie dei bimbi perduti al Corriere della Sera. Sgarbi e Liguori la insultavano quotidianamente. Ferrara e Jannuzzi (intimi del giudice Squillante) facevano altrettanto sul Foglio e Panorama. Ferrara allestì un montaggio "taglia e cuci" del suo interrogatorio davanti al Gip, per diffonderlo in migliaia di copie con Panorama nonostante il divieto del tribunale, e farla apparire in stato confusionale. Quanto poi la signora fosse miope e visionaria lo dimostrarono non solo le foto-ricordo del suo album, non solo le lettere affettuose con cui Previti la ringraziava per i regali, ma soprattutto le rogatorie bancarie svizzere sui passaggi diretti di milioni fra i conti esteri della Fininvest, di Previti e di Squillante. Nel frattempo le minacce e le lusinghe per indurla a ritrattare proseguivano, sempre più frequenti a mano a mano che i processi avanzavano e le sentenze si avvicinavano. Tutto inutile: la teste Omega non ritrattò, anzi confermò tutto negli infiniti interrogatori che le difese organizzavano per farla cadere in trappola. Alla fine, mentre la sua casa di Como venivano continuamente visitata da misteriosi "ladri" che devastavano tutto senza rubare nulla, ebbe una sola soddisfazione: le parole dei giudici dei processi Imi-Sir/Mondadori e Sme che la definiscono "pienamente attendibile", "del tutto sincera", "ampiamente riscontrata", ricordando gli altissimi prezzi da lei pagati. Naturalmente, nel manicomio Italia, chi deve vergognarsi non è chi ha mentito e chi ha rubato. Ma chi ha detto la verità e ha perso tutto. Quelli che hanno offeso, calunniato, vilipeso Stefania Ariosto siedono al governo e in Parlamento, dirigono giornali e pontificano ogni sera in televisione. Anche sul dovere civico di testimoniare contro il crimine. Anche sui diritti delle donne e sulle pari opportunità. In Parlamento ci sono persino condannati per falsa testimonianza che vanno fieri del loro bel pedigree e lo esibiscono in tv con il giusto orgoglio. La Ariosto, avendo compiuto semplicemente il proprio dovere, è ormai priva dei diritti più elementari. Non può nemmeno uscire di casa per partecipare a un girotondo, a un convegno, a una manifestazione, nemmeno in silenzio, senza che salti su il solito Mastella, il solito Ferrara, il solito Giornale a sputare veleno. E non sono neppure i peggiori. Peggiori sono quelli che tacciono.

uomo sui gradini
  
Filosofia nel vostro boudoir
Consigli per la lettura di pensatori accessibili
Umberto Eco su
L'espresso

Sarà perché la gente non sopporta più la televisione spazzatura, sarà perché nel mondo accadono tante cose brutte che si sente il bisogno di alcuni momenti di riflessione rasserenata, ma si stanno moltiplicando i luoghi e le occasioni in cui al grande pubblico si ripropone la filosofia. Proprio quella del liceo, magari in un caffè dove ci si riunisce la domenica, come a Parigi, o attraverso volgarizzazioni di facile lettura, talora facendo accorrere un pubblico incredibilmente vasto in sale dove discutono i filosofi professionisti.
In tutto questo c'è della moda e della semplificazione massmediatica, certo, ma il sintomo non è da sottovalutare. Pertanto mi viene in mente di fare alcune proposte per i non specialisti, anche per coloro che la filosofia non l'hanno studiata al liceo, o che sono andati ad ascoltare dei presunti filosofi che parlavano da qualche parte e non hanno capito nulla. A tutti costoro consiglio la via più semplice: leggere quanto hanno scritto i veri filosofi.

Non sempre la filosofia deve apparire facile, talora deve essere difficile, ma non sta scritto da nessuna parte che per filosofare occorra parlare difficile. La difficoltà del linguaggio - in filosofia - non è segno né di qualità né di perversità, spesso dipende dal problema che si affronta. Ci sono capolavori filosofici, che hanno cambiato il nostro modo di essere e di pensare, i quali sono fatalmente difficili, per cui non inviterò nessuno, che non sia specializzato, a leggere la 'Metafisica' o 'L'Organon' di Aristotele, la 'Critica della ragion pura' o quel libro sublime ma impervio che è l''Etica' di Spinoza.
Ma ci sono anche filosofi che hanno saputo parlare in modo accessibile e spesso sono gli stessi che in altre opere hanno parlato in modo inaccessibile. Pertanto consiglio solo alcuni libretti (ciascuno dei quali si aggira in media intorno al centinaio di pagine) in cui si vede come si possa filosofare senza usare troppi termini tecnici.

Cominciamo con Platone. Proporrei il 'Critone', dove si impara come e perché un cittadino non debba sfuggire all'osservanza delle leggi (che si chiami Socrate o Silvio) e, passando ad Aristotele, la 'Poetica'. Dimenticate che parla della tragedia classica. Leggetelo come se ci descrivesse come si fa un romanzo giallo o un film western. Il nostro uomo aveva già capito tutto quello che più di duemila anni dopo avrebbero capito Hitchcock o John Ford. Quindi si legga il 'De magistro' di Sant'Agostino: parla di come si parla a un figlio su cose di tutti i giorni. Un libretto geniale per semplicità e acutezza.
Pur essendo cultore del Medioevo, trovo difficile consigliare un testo della grande epoca scolastica, perché poche pagine, lette fuori dal loro contesto sistematico, possono risultare fuorvianti. Saltiamo il fosso, quello strettamente filosofico, e orientiamo il nostro lettore sull'epistolario (eh sì, amoroso) di Abelardo ed Eloisa. Non aspettatevi troppo sesso, ma vale la pena.

Per il Rinascimento, proviamo con l'orazione sulla dignità dell'uomo di Pico della Mirandola. E poi (ma solo per antologia, e ce ne sono) qualche passaggio dai 'Saggi' di Montaigne. Vanno bene anche a dosi omeopatiche.
Subito dopo, il 'Discorso del metodo' di Cartesio, esemplare per chiarezza, quindi una antologia dai pensieri di Pascal. E infine un filosofo che scriveva come se stesse parlando dopocena coi suoi amici, colto e assennato, il John Locke del 'Saggio sull'intelletto umano'. L'opera intera è lunga, ma direi di limitarsi al terzo libro, quello dedicato all'uso che facciamo delle parole. Come per Aristotele, leggetelo come se Locke ci parlasse dei discorsi di oggi, confrontate le sue osservazioni con le prime pagine dei giornali e coi dibattiti televisivi dei giorni nostri.

Per l'illuminismo, mi limiterei per ora al 'Candido' di Voltaire; alla fin fine si tratta di un romanzetto, e gradevolissimo. L'Ottocento è una brutta bestia, sono libroni difficili, ma siamo solo noi italiani che non consideriamo lo 'Zibaldone' di Leopardi un'opera di alta filosofia. Recentemente in Francia lo hanno ricuperato con immenso rispetto. Anche lì, andiamo per salti antologici, una paginetta o due alla sera prima di addormentarsi. Oppure faccio una proposta provocatoria. Visto che Kant è per definizione troppo esigente, andiamo a incontrarlo là dove, per arrotondare lo stipendio, faceva lezioni agli studenti su argomenti su cui non era specializzato, e si dimostrava spiritoso, bizzarro, capace di raccontare aneddoti e di esprimere opinioni anche paradossali: leggiamoci cioè le sue lezioni di antropologia. Il titolo può fare paura ma il testo è da alto rotocalco.
E poi? E poi lo spazio per la Bustina è terminato e lascio perdere i contemporanei. A meno che non vogliate, saltellando qua e là, centellinare alcune delle osservazioni di Wittgenstein in (non fatevi spaventare dal titolo) 'Ricerche filosofiche'. Ogni tanto direte che era matto. Sì, era matto. Ma che matto.

uomo che detta allo scrivano
  
Quando l'Italia smise di sentirsi cattolica
Filippo Ceccarelli su
La Stampa 7 maggio

Dodici maggio 1974, e cambiò tutto. Molto semplicemente: smise l'Italia di sentirsi cattolica, e per la prima volta si giudicò un paese moderno. A distanza di trent'anni, si può dire che entrambe le condizioni erano veritiere nella loro più rischiosa incompiutezza. Ma la sera del 13, con la primavera ancora un po' in ritardo, resta comunque indimenticabile.
"Questa sera è una nuova Porta Pia - annota nei suoi diari l'ambasciatore italiano presso la Santa Sede Gian Franco Pompei -.

Anche Paolo VI, come Pio IX, ha voluto avere la sua: l'ha avuta". Il Papa stava male, all'inizio del mese un giornale francese l'aveva già dato per morto. A rileggere quell'eccezionale miniera di ricordi che sono i taccuini del diplomatico italiano, Un ambasciatore in Vaticano (Il Mulino, 1994), c'era chi diceva che se si fosse perso il referendum il Papa si sarebbe dimesso. Pompei aveva chiesto conferma in Segreteria di Stato: "Il cardinal Benelli ha alzato le braccia al cielo con vivi segni di diniego". Paolo VI in effetti non si dimise, né quella sera né mai, però i risultati elettorali lo resero ancora più debole, e più cupo.

Marco Pannella aveva da pochi giorni compiuto 44 anni. Era allegro e felice, sebbene o forse proprio perché al decimo giorno di sciopero della fame (contro Bernabei, direttore generale della Rai fanfaniana). I divorzisti si ritrovarono spontaneamente a Piazza Navona. "Quella notte, fino all'alba - scrivono Massimo Teodori, Piero Ignazi e Angelo Panebianco ne I Nuovi Radicali (Mondadori, 1977) - l'immensa marea dei cittadini, forse mezzo milione, percorse in corteo le strade della capitale, esternando l'entusiasmo della prima vittoria dal dopoguerra sulle forze moderate, conservatrici e clericali, in un'atmosfera paragonabile a quella della proclamazione della vittoria repubblicana del 1946".

Il 1870 per i pontefici, quindi, e il 1946 per la società italiana: quando si dice che il dodici maggio 1974 è una data che fa epoca. A Piazza Navona, quella sera, vennero anche moltissimi comunisti; e tra loro due salaci spiriti come Maurizio Ferrara e il "sor Paolo" Bufalini. Quest'ultimo, dirigente affidabilissimo e pregevole traduttore di Orazio, era il personaggio incaricato di tenere i rapporti tra le Botteghe Oscure e la Santa Sede, e fino all'ultimo aveva cercato di evitare il referendum. Berlinguer, infatti, che pure lo avrebbe vinto, non lo voleva: un po' perché temeva che le donne, anche comuniste, avrebbero votato Sì; e un altro po' perché lo scontro con il mondo cattolico ingarbugliava inesorabilmente la sua politica, quella del compromesso storico. Pannella lo sapeva benissimo, e ci dava dentro.

Così, quella festa di piazza che con qualche ragione i radicali avevano fatto propria era in effetti molto meno festosa di quello che sembrava. Tanto che vi si esercitò la pesante vena poetico-romanesca di Ferrara. I pannelliani, per lo più ubriachi, erano qualificati "'na manica de gente assai lasciva/ finocchi e vacche ignude alla Godiva". Troppo per il moralismo comunista. "Ar vedelli smanià come li bonzi - così si concludeva dunque il sonetto - sor Paolo ciancicò: "Bell'allegria,/ ce tocca vince pure pe' 'sti stronzi!". Era l'inizio di una lunga contesa a sinistra, sulla frontiera mobile del laicismo, delle libertà civili, dell'uso del referendum, del voto giovanile.
Gli sconfitti, d'altra parte, avevano ben altro su cui riflettere. I promotori cattolici della consultazione per primi. Avevano affrontato la battaglia con dignità, ma con pochi mezzi. Ha raccontato a questo proposito Vittorio Mathieu una frase ascoltata durante la campagna elettorale da Norberto Bobbio: "Io sono per il divorzio, eppure vorrei vedere nella nostra università di Torino, fra tanti manifesti, un manifesto contro: anche uno solo".

In un volume uscito 14 anni dopo, Perché il referendum sul divorzio (Ares, 1988) il professor Gabrio Lombardi non ha saputo resistere alla tentazione di porre la questione cruciale: si poteva vincere? E risponde di sì, indicando ben otto impedimenti (preoccupazioni, convenienze ed equivoci nel mondo politico e cattolico) che gravarono in modo decisivo sul risultato. Ma quella sera anche Lombardi dovette riconoscere che l'Italia non era più quella che in tanti, come lui, pensavano. E cominciò probabilmente a stendere l'ultimo orgoglioso comunicato di quella battaglia: "Mai come in questo periodo abbiamo avvertito in noi la grande pace, la grande gioia, che dà la certezza di aver compiuto, sino in fondo, il proprio dovere".
Pochi democristiani potevano proclamare altrettanto. Costretti per pigra acquiescenza a predicare nelle piazze cose in cui non credevano più, vi incontrarono un'Italia che non riconoscevano più, ostile ai loro ragionamenti capziosi o lacrimevoli sull'indissolubilità del matrimonio e sui travagli della vita coniugale. Il povero Luigi Granelli, che pure era un uomo aperto, una volta a Trieste si vide interrompere il suo pacato fervorino da una signora che in piedi sotto il palco, a mani giunte, gli gridava: "Ohè, per favore, basta: che ne vuoi sapere tu di cazzo e fica?".

L'espressione era senza dubbio brutale, ma anche su quella particolare materia non tutti i dc avevano la coscienza a posto. Gli annullamenti rotali garantivano infatti, per giunta a caro prezzo, una specie di "divorzio vaticano". Sullo scabroso materiale, trascritto in un solenne e ridicolo latino, mise le mani l'avvocato Mauro Mellini, che ne diede conto su La Prova Radicale in un articolo appunto dedicato alle "Onorevoli nullità". Diversi accesi politici anti-divorzisti vi figuravano in un incredibile quadro di vaginismi, impotenze, frigidità, sigilli virginali, verghe e liquidi organici versati qui e là, dentro e fuori, attivando un pietoso campionario di infelicità fortunatamente più finte che vere.

Il partito della famiglia ebbe la più crudele e mortificante esposizione. C'era l'onorevole missino che assicurava di essere stato scelto dalla madre della sposa, che anzi lo trovava "un bamboccio fatuo, vuoto, effeminato, scivoloso". C'era il notabile dc sposato con una donna socialista che riferiva come costei un figlio non l'avrebbe mai fatto, anzi l'avrebbe fatto "col fischio", come diceva, e qui aggiungeva un gesto volgare. Un altro caso più che imbarazzante descriveva nei minimi dettagli, e sempre in latino, i vani e molteplici assalti di un onorevole alla moglie. Ma il curioso di tutta la faccenda è che il marito, "exacerbatus" dall'impossibilità di "perficere carnalem copulam cum uxore", ecco, "totum se profundit ad vitam publicam". E cioè proprio per questo si era messo a fare politica, con la Dc: per sublimare o
dimenticare le sue frustrazioni sessuali.

E insomma, per forza i democristiani erano in affanno. Solo Amintore Fanfani, che d'accordo con il suo conterraneo cardinal Benelli aveva tentato il colpo di dadi del referendum, tenne alto il vessillo della crociata. A Caprese Michelangelo, alla fine della campagna, volle personalmente inaugurare un blocco scultoreo dedicato "dai figli riconoscenti ai genitori uniti". Ma il numero più formidabile, così come lo ricostruisce Giorgio Galli nella sua biografia Fanfani (Feltrinelli, 1975) e ancora di più una pubblicazione semi-anonima (Aretino 75, Lo stile del Professore, Sugarco, 1975), il segretario della Dc lo fece in un cinema di Caltanissetta: "Se il divorzio passerà - ebbe a minacciare - in Italia sarà persino possibile il matrimonio tra omosessuali. Vi piacerebbe, gentili ascoltatori - proseguì roteando gli occhi, l'indice puntato su quella platea quasi interamente maschile - vi piacerebbe se vostra moglie vi lasciasse per sposarsi con la moglie del vostro amico, o magari per scappare con la donna di servizio, o con una fanciulla desiderosa di apprendere? Pensateci".

La triplice opzione saffico-fanfaniana fece il giro d'Italia. Anche se forse, a distanza di trent'anni, occorre l'onestà di riconoscere che a suo modo Fanfani aveva visto lungo: di matrimonio fra gay oggi si parla, eccome. Gli altri dc risultarono assai meno profetici, restando convenientemente acquattati. Andreotti distratto dalle incombenze della Difesa; Moro defilato alla Farnesina; Rumor come al solito laceratissimo a Palazzo Chigi. Chissà chi, fra loro, pronunciò quella cinica e strepitosa battuta a pochi giorni dal 12 maggio 1974: "Se perdiamo, siamo perdenti. Ma se vinciamo, siamo perduti". Persero, dunque. E cioè vinsero. O meglio: i democristiani resistettero un'altra ventina d'anni. In che modo è qualcosa che con questo anniversario c'entra poco e c'entra tanto, a secondo di come si giudica il presente.

san gerolamo porta il leone ed i frati scappano
  
Per un giorno si può
La banda di Berlusconescu
Stefano Benni su
il Manifesto 7 maggio

Cosa tiene insieme il fallimentare regime rumeno-arcorese di Berlusconescu e la sua orda di ventriloqui, leccaculi, censori, corruttori, compagni di loggia, chirughi plastici, cartellonisti, stipendiati palesi e nascosti? La pura occupazione militare dei media? Il patto d'affari con speculatori, palazzinari e mafiosi che cercano di arraffare gli ultimi saldi di appalti e panorami? Il sonno della sinistra istituzionale che rimuginando strategie per il possibile dopo, non fa quasi nulla per l'adesso, continuando a bearsi nelle insalivate poltrone di Vespa? O la poca combattività di tanti comici e cantanti e registi, assai pronti al lamento ma prudentissimi nel dispiacere al Minculpop, per poi ritrovarsi in qualche ecumenica premiazione televisiva, o melassa di videoclip? Arrabbiati o indifferenti, contempliamo il declino di un paese che certo non sfolgora a sinistra, ma da un pezzo non è più berlusconiano. Un paese oppresso da un governucolo codardo e incapace che cede ai ricatti degli straricchi e scappa davanti a ogni problema sociale, e a ogni opinione pubblica non manipolabile e tenace, come la maggioranza pacifista. Un governucolo pauroso di ogni critica, che ha bisogno di sei televisioni per puntellare lo zero delle sue ragioni. Che arranca verso uno scomodo voto, chiedendosi quale uso privato potrà farne. Ampliare l'azienda Berlusconescu? Garantirgli la fuga col bottino? Preparare un governo Amato in differita con Andreotti al mixer?

Ma questo fallimento è mascherato da una precisa ideologia. Che non è il totalitarismo Stalinvest di Berlusconescu né la farsa del bipartisan. E' la vecchia italica filosofia del giorno per giorno, fetente e necessaria quando riguarda la sopravvivenza dei singoli, ipocrita e impotente quando la applica uno stato.

Cosa insegna questa filosofia, o filoflussia o one-day-swindle o new improvisology, come direbbe il creativo Tremonti? Che per un giorno si può commettere qualsiasi truffa o reato. Basta aspettare qualche giorno perché tutto sia dimenticato, o frullato nella propaganda. Ogni giorno, una patacca nuova per nascondere la patacca vecchia. Impotenza travestita da forza, con tanto di cerone, lifting, e depilazione dei media. Esempi.

Per rilanciare l'economia, per un giorno possiamo riciclare il danaro sporco, falsare i bilanci o esportare i capitali all'estero, l'ha detto il premier e l'ha confermato il ministro al Tracollo, onorevole Tremonti, detto anche "vieni avanti creativo".

Per un giorno si può mandare Previti a corrompere i giudici. Quando arriva la condanna, parliamone un giorno e poi più.

Per un giorno è lecito torturare anche in Italia e Usa e Inghilterra. Basta dichiararsi nauseati subito dopo. Se in quel giorno il torturato muore, cazzi suoi: non ha afferrato lo spirito del carpe diem.

Si può dire un giorno che in Iraq la guerra è finita e che i soldati restano come contingente di pace. Se il giorno dopo la guerra riscoppia, beh, ormai siamo lì.

Per un giorno un premier logorroico che da mesi sproloquia e fa propaganda sulla guerra, può chiedere il silenzio stampa.

Per un giorno possiamo collegarci in diretta coi nostri soldati e far finta che sia tutta una telenovela, ma il giorno dopo torneranno a essere facili bersagli.

Per un giorno in parlamento può andare in scena la centesima replica della farsa "A noi non ci dà ordini nessuno", da parte di leghisti matricianizzati, poltronari di aenne, e portaborse di centro e il giorno dopo tutti in riga a servire il premier.

Per un giorno si può delirare del ponte di Messina e dell'Impero romano, tanto il week end successivo saremo in fila sulle autostrade collassate, o sulla tangenziale di Mestre o Milano, e la prima frana o alluvione distruggerà un altro pezzo di paese.

Per un giorno si possono condannare i generali bugiardi, poi verrà la prescrizione.

Per un giorno Mortisia Moratti può chiamare grande riforma scolastica un pasticcio da somari (in inglese donkeys) che gli insegnanti hanno già bocciato.

Per un giorno possiamo chiamare ministro della cultura uno come Urbani che è pronto a vendere Capri a Michael Jackson.

Per un giorno possiamo affidare il servizio pubblico a Cattaneo e a Gasparri, che dimostrano come il futuro della comunicazione abbia due grandi potenzialità: la banda larga e la banda dei ruffiani di Silvio.

Per un giorno si possono caricare gli operai perché hanno affossato la Fiat, o insultare i dipendenti Alitalia perché si sono intascati i bond, oppure sostenere che il crac Parmalat nasce dal costo della ricotta e dall'avidità delle mucche.

Per un giorno si può scatenare la polizia a Genova, per un giorno si può inseguire il rapinatore fino a dieci chilometri dal negozio, per un giorno si può intervistare un serial-killer come se fosse un guru.

Per un giorno, il 4 giugno, si potrà militarizzare l'Italia e trasformare la televisione in un McDonald's, confidando che la Cia o Putin o qualche nuova sigla abbiano qualche buona idea per ribaltare un risultato elettorale scomodo.

Per un giorno, per proteggere e servire Bush, il contribuente spenderà quello che servirebbe alla protezione civile in un mese.

Per un giorno, per far divertire il presidente Usa nella villa sarda di Berlusconescu, il geniale Lunardi costruirà un bunker dotato di un campo da golf sotterraneo con buche sul soffitto.

Per un giorno si può pensare che l'opposizione a tutto questo si faccia un giorno sì e dieci no.

Per un giorno si può firmare un appello e poi sentirsi appagati per il resto dell'anno.

Per un giorno si può fondare un movimento, un corteo, un'occupazione, un comitato e scioglierlo quando i giornalisti se ne vanno o è finita la birra.

Per un giorno si può dire la democrazia è in pericolo ma poi la televisione ti intervista un paio di volte e la democrazia è ristabilita.

Per un giorno possiamo dire che siamo a controfavorenò ma anche a procontrosì nei confronti della guerra, e intanto i giorni passano.

Per un giorno ci dà grande conforto constatare che tanti, tantissimi tengono duro ogni giorno, sapendo che questo governo si dichiara longevo, ma la storia dell'opposizione in Italia è molto più lunga, e non finirà in un giorno. E in tanti dimostrano coraggio anche senza cavalcare un blindato. Per un giorno li ringrazio, e tra questi c'è l'obsoleto manipolo del manifesto.

Per un giorno dimentico tutte le volte che mi sono incazzato con loro (spesso giustamente ricambiato).

Per un giorno vorrei che tutti quelli che lo comprano un giorno alla settimana, specialmente in caso di apocalissi, ecatombi e onde anomale, lo acquistassero normalmente tutti i giorni.

Per un giorno, anche se so che è difficile, mi piacerebbe che arrivasse puntualmente in tutte le edicole vicine e lontane.

Per un giorno, vorrei che il volto stanco e ironico di Luigi Pintor ci ritornasse in mente, come esempio di una vita piena, battagliera, che nessun dolore o delusione politica cancellerà, e che continua a darci forza.

Per un giorno, penso che questo sia un piccolo, dubbioso, schizofrenico, generoso giornale da difendere a spada tratta, o un giorno lo rimpiangeremo.

palazzo e folla dovunque
  
Lo scopriremo solo vivendo
Perche' e' breve la vita del cristallino 28 aprile

sono giorni frenetici. mi sembra di stare nel video di madonna, quello che ha copiato da biagio antonacci. quello col time-lapse della superstrada americana e dei grattacieli fotonici. ray of light, ecco come si chiama.
la mattina mi alzo talmente presto che devo andare io a svegliare il gallo perche' canti. la sera vado a letto cosi' tardi che non ho neanche il tempo di guardare i reality show. ormai riconosco che giorno e' dall'odore dei cuscini: se sanno di verza cotta e' lunedi', se sanno di frittata e' martedi', se non sanno di niente e' mercoledi' e se sanno di provola affumicata e' giovedi'. per gli altri giorni, fortunatamente, ho ancora una casa a carpi. coi cuscini che non rancidano.
mi sembra di vivere sola: ormai in alloggio non ho piu' contatti sociali. ma se e' per questo anche prima. parlare con mery terry non puo' considerarsi contatto sociale. e' piu'... assistenza sociale.

ieri notte finisco di lavorare all'una. torno a casa quatta come una razza chiodata e mi incoltro. ma l'adrenalina circola ancora fitta come le ape-car sulla salerno-reggio calabria e non riesco a prendere sonno. cosi', peggio dell'amina di bellini, inizio a deambulare per il corridoio in cerca di pacificazione. ignara che di li' a pochi secondi avrei invocato le piu' suppuranti malattie oculari. per certe cose non basta l'ipermetropia. per certe visioni la cataratta innesca l'autocombustione. per certe proiezioni retiniche il nostro sistema immunitario agisce con degli spasmi che nemmeno le cervicalgie da ernia ti provocano. tu esci dalla tua stanza dopo un giorno di travaglio e ti ritrovi, dopo nemmeno 16 ore, a invocare corioretinopatia sierosa o coma vegetativo. nemmeno a medjugorie ci sono state tali reazioni isteriche. ecco, dopo lourdes e fatima, questa volta l'apparizione e' toccata a me.
esco dal mio uscio, appoggio i plantari nella valleverde delle piastrelle di casa. uno strano profumo solletica i miei dendriti nasali. se fossi stata bernadette, avrei sentito odore di rose e avrei visto una bella signora vestita di azzurro venirmi incontro. essendo nata ilenia, sento solo olezzo di solanacee. peraltro anche fuori stagione. continuo nel mio pellegrinaggio domestico e nella caligine che offusca il mio cammino ruoto il collo all'indietro. intravedo moti anomali. o animali. l'istinto di sopravvivenza mi impone di rigirarmi e scappare verso il primo pertugio raggiungibile. la mia pietas e lo stato di ottundimento post-lavorativo non rispondono ai richiami immunodeficienti. dunque l'olfatto e' solleticato, la vista titillata. ma non basta. non e' abbastanza per far scattare il senso del rischio. e cosi', ignara di essere esperiatura di incontri ravvicinati del terzo e quarto tipo, continuo l'esilio verso il frigorifero.

-ileeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

spero sia un incubo.

-ileeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

non puo' che essere un incubo

-ileeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

freddy krueger di merda, dove cazzo sei?

sono ancora di schiena. possiedo ancora la vista. ho letto la mitologia e so cosa succede a chi guarda la medusa. non girarti ile, non farlo. non sei perseo.

-ileeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

rispondo gandhiana alla provocazione e sottovoce cerco il dialogo

-porco cazzo, cosa urli a quest'ora di notte?
-ma perche' parli di zchiena?
-non ho voglia di vederti
-ma che ti sei 'mbazzita? dai, che tra di noi amiche non ci zono probblemi
-A: noi non siamo amiche; B: non ho voglia di conversare con te. per parlarti ti ho fissato degli orari e tu devi rispettare quelli.
-ma tu non hai fizzato nezzun orario!
-appunto
-zenti, ti devo ghiedere una coza che non ho capito
-quale, tra i triliardi di concetti che il tuo cervello non puo' afferrare?
-in ghe zenzo?
-nel senso che sui misteri del tuo cervello ci potrebbero fare un intera puntata della macchina del tempo
-zenti, non capizco gome devo piglia' zta medigina
-deo gratia! ti hanno trovato la cura? per eliminarti esiste qualcosa che arriva dove nemmeno il verderame puo' giungere? che medicina e'?
-mo' che gazzo digi... e girati che non riezco a gapi' che digi...

e' nei gesti quotidiani piu' semplici che si nasconde la pazzia. quando michael douglas ha il suo giorno di ordinaria follia, ce l'ha per strada. non ce l'ha in honduras tra le mangrovie o ad amsterdam in un coffee shop. ce l'ha mentre va al lavoro. un momento qualunque, un di' qualsiasi e... tac. parte l'embolo.
qualcosa del genere deve essere successo al mio, di grumo ostruente. perche' vittima di una follia che neppure erasmo da rotterdam avrebbe saputo elogiare, ho piroettato di 180 gradi e me la sono trovata davanti. e repentino si ammaina l'urlo.

-ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
-mo ghe gazzo ti urli? non hai mai vizto una donna nuda?

nella tenebra che avvolge la mia casa un essere insondabile in costume adamitico si staglia in tutta la sua eposa pinguedine, nel suo concentrico cumulo di vera polpa di suino. la sua corpulenta stratificazione manderebbe in crisi il piu' puntiglioso geografo. nessuna mammografia, a meno che non ne esista una grandangolare, sarebbe in grado di ritrarre in meno di 120 pose la sua tettonica a placche. la lady godiva del busento cavalca a capello sciolto tra le maioliche di casa mia. il capello ora e' rosso e si intreccia ai peli delle braccia in un continuum spazio-temporale che non lascia scampo ai cardiopatici. non riesco a capire dove finisce la donna e dove cominci il megachirottero.

-teresa, porco cazzo, vuoi vestirti? se ti fisso per altri 5 minuti rimango offesa!
-nel tuo zenzo del pudore?
-ma no, razza di lampiride puzzosa... nelle mie capacita' di intendere e di volere!
-ecchessarrammai! pure tu zei fatta cozi'!
-se permetti... COL CAZZO, CICCIPUT!
-zenti, mo' non ezzere invidioza perche' io zo' piu' formoza di te!
-cristobal, ma sei rincoglionita nei villi intestinali? non potrei mai essere invidiosa di te a meno che non avessi il gusto dell'orrido!
-zenti... dammi una mano... non riezco a capi' gome devo piglia' 'zta coza...
-che e'?
-'na pillola
-per l'emicrania?
-no
-per il mal di testa?
-si'
-ma sei cretina? sono la stessa cosa!
-ah! allora no
-per che cos'e'?
-e' la pillola congezionale
-eh?
-la pillola congezionaleeeeeeeeeeeeee

pausa di riflessione. nella mia mente si susseguono tutta una serie di connessioni logiche che mi portano alla seguente deduzione: teresa tromba. corollario della deduzione: meglio che non si moltiplichi.

-allora teresa, vieni qua che ti spiego bene.
-tu zpiega, ze lo fai bene non lo zo. parli sembre ztrano tu
-lo so, e' una cosa nuova per te. si chiama I-TA-LI-A-NO
-come mio zio
-hai uno zio che si chiama Italiano?
-nooooooo, mo ghe c'entra! mio zio si ghiama luiso. pero' e' italiano
-non ti rispondo neanche perche' ho paura di inerpicarmi in discorsi che mi porterebbero alla morte. e poi luiso... che cristobal di nome e' luiso?
-come luisa pero' con la O
-non fa una piega
-beh, mi digi come si prende 'zta coza?
-ma non te l'ha spiegato il ginecologo?
-ginecologo?
-ah, scusa... ovvio che tu sia andata da uno zoologo...
-macche'! me le ha date mia cuggina!
-prego?
-a lei ci vanzavano
-ma non puoi prendere la pillola a caso! te le deve prescrivere il medico!
-zi', e mo' io devo zpendere dei soldi per farmi fare una rigetta? mia cuggina ha la cognata farmacizta e ne puo' avere quante ne vuole. adezzo a lei non ci zervono perche' e' incinta
-vedi di non fare lo stesso errore...
-zenti, quando la devo piglia' zta pasticca congezionale?
-si prende il primo giorno del ciclo e poi ogni giorno alla stessa ora per 21 giorni. si smette per 7 giorni e poi si ricomincia.
-fagile!
-beh, non e' complicato
-e quando voglio ave' un bambino gome faccio?
-questa e' una domanda che non ti dovrai mai porre. tu non devi figliare. e' contro la convenzione di ginevra.
-ma jenny vuole 'na famiglia!
-che si tenga quella che ha gia': padre, madre e 9 fratelli. direi che basta.
-pero' una piccola terezina...
-VADE RETRO SATANA! NON BESTEMMIARE! sai che se bestemmi ti succedono cose orribili?
-muoio?
-peggio
-vado all'inverno?
-peggio
-rimango fantazma?
-no. vieni cacciata dalla fattoria come il baffo da crema
-uh! poverino! no, non voglio!
-ecco, quindi vedi di seguire le istruzioni della scatola e di non dimenticarti nemmeno una pillola!
-vabbene. grazie ile'
-figurati. se posso fare volontariato... buonanotte
-zenti...
-che c'e' ancora?
-ma poi mi viene la nausea?
-beh, probabile che un pochino ti venga...
-ma quando ti viene la nausea non e' che perche' sei inginta?
-non necessariamente
-infatti. mia madre quando aspettava me non ha mai vomitato.
-ha recuperato abbondantemente dopo... quando ti ha vista appena nata
-chevvuodi'?
-senti, vai a dormire?
-zi', mo' vado che jenny e' di la' che mi azspetta. lo vuoi zalutare? jennyyyyyyy....
-NO NO NO NO NO: fermati! sono sopravvissuta a te nuda, non potrei resistere anche a lui.
-eh, lo so che jenny ti piage. invatti e' molto bello
-se sei un aracnofilo, si'...
-bero' tu a lui non piagi
-pazienza. me ne faro' una ragione
-allora non lo zaluti?
-guarda, gli dico ciao da qui. ciao jenny! ecco vedi? fatto
-buonanotte
-'notte. capito tutto della pillola, allora?
-perfeddamende
-bene. buonanotte.

e mi incammino verso il mio letto. ma un'ultima perifrastica stringe il mio padiglione auricolare in una morsa di dolore.

-jennyyyyyyyyyyyyyyyy... galmo, ho chiesto a ile': 'zta pillola la devi piglia' per 21 giorni e bazta... tranguillo che non t'ingrazzi... al mazzimo ti faccio fa la dieta di mia madre: cereali, latte e sopprezzata!

dopo queste parole l'unica immagine che riesca a descrivere il mio stato e' un quadro di pollock. anche se la soluzione migliore sarebbe impacchettare mery terry alla christo.

Mi sto accorgendo che son giunto dentro casa
con la mia cassa ancora con il nastro rosa
e non vorrei aver sbagliato la mia spesa, con la mia sposa.


uomo in barca
  

   9 maggio 2004