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sulla stampa
a cura di G.C. - 6 giugno 2007


Caso Speciale, l'Unione si gioca tutto
Maria Zegarelli su
l'Unità

L'Unione arriverà in Aula al Senato con un proprio ordine del giorno sul caso Visco-Guardia di Finanza. Lo voterà compatta e altrettanto compatta voterà contro tutti i documenti che presenterà la Cdl: è questo il risultato di un'altra giornata di passione vissuta a Palazzo Madama con un'opposizione in evidente crisi di nervi di fronte alla ritrovata (per il momento) unità della maggioranza. Ed un'altra tappa, un vero e proprio tour de force: alle 9.30 la presentazione delle mozioni e degli ordini del giorno (14 documenti in tutto), un lungo dibattito destinato a durare fino a sera, la replica del governo, affidata al ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa (il premier è al G8) dalle 19.40 alle 20, le dichiarazioni di voto e il voto, previsto intorno alle 22.30. "I numeri ci sono, siamo tranquilli", dice la capogruppo dell'Ulivo al Senato Anna Finocchiaro. L'ultima fibrillazione arriva dal ministro della Giustizia Clemente Mastella - che l'altro ieri aveva chiesto un odg della maggioranza per ribadire la solidarietà alle Fiamme Gialle -: "È ovvio - dice - che se non viene votato non c'è più il governo". Per una volta anche il collega alle Infrastrutture Antonio Di Pietro la pensa allo stesso modo. "Se non si vota l'odg tutti a casa il giorno dopo". Non gradisce Antonello Soro, coordinatore della Margherita che legge come un ultimatum le dichiarazioni. È Finocchiaro, a conclusione della conferenza dei capigruppo, a sgombrare il campo: "Presenteremo un odg come maggioranza. Non c'è dubbio che la maggioranza di governo esprime non solidarietà, perché la solidarietà presuppone un'offesa, ma pieno apprezzamento per la Guardia di Finanza, stima considerazione e gratitudine per il lavoro che ogni giorno fa al servizio dei cittadini e della legalità". Verdi, Pdci, Rc, Ulivo appoggiano la linea. Ed è ancora la lady di ferro di Palazzo Madama a scrivere la bozza che arriva nella riunione dei capigruppo di maggioranza. "Apprezzamento per il ruolo della Guardia di Finanza" e "condivisione dell'azione del governo"; questo in sintesi il contenuto dello stringato documento. Sostegno al governo, per come ha proceduto, con il congelamento della delega a Visco in attesa che si faccia chiarezza. Il documento fa il giro dei gruppi per l'ok finale e quando arriva all'Ulivo, "una riunione complessa, ma condotta con grande fermezza da Anna Finocchiaro", i diniani della Margherita storcono il naso. Chiedono una "censura" per l'operato di Visco. Trovano un muro. Si finisce con una posizione unitaria: fermare l'attacco della Cdl. "Credo che qui al Senato su questa vicenda registreremo l'assoluta unità - dice Finocchiaro - e coerenza di tutte le forze di maggioranza e credo che il governo spiegherà e molto bene, quale è stata la vicenda che si è sviluppata nell'ultimo anno e che ha riguardato il vice-ministro Visco e il generale Speciale".

La Cdl intanto cerca di bruciare le tappe e durante la discussione in Aula tira di nuovo fuori il caso. Dopo l'intervento del presidente dei senatori di Fi, Renato Schifani, chiede che il governo riferisca sulla situazione al vertice delle Fiamme Gialle. Il leghista Roberto Calderoli fa l'ironico: "Vorrei sapere se ci sono due Comandanti generali, magari uno per il centronord e uno per il centrosud. Certo, costituzionalmente non sarebbe corretto...". Gli risponde Furio Colombo, dell'Ulivo: "C'è stata una nomina e attualmente c'è un nuovo comandante della Guardia di finanza. L'altro va bene alle marce di Berlusconi e per dire a Berlusconi “sempre ai suoi ordini”". È bagarre. L'opposizione alza la posta: vuole le dimissioni di Padoa Schioppa. Schifani si appella "alla coscienza" dei senatori di maggioranza per il voto di oggi. Nella mozione, ritoccata ieri, la Cdl chiede l' impegno del governo "a revocare le deleghe assegnate al vice ministro dell'economia" Vincenzo Visco e a "rispettare rigorosamente le procedure giuridiche ed amministrative in tema di revoca e conferimento di incarichi pubblici". Calderoli spara le sue cartucce: "I bene informati sostengono che la Corte dei Conti ha bocciato il provvedimento di sostituzione del generale Speciale in quanto illegittimo". Fi chiama all'appello i giovani azzurri e li incarica di inscenare una manifestazione per stamattina davanti al Senato. Intanto si cercano contatti con gli ex presidenti della Repubblica per convincerli al voto.


Le due debolezze
Curzio Maltese su
la Repubblica

Il Berlusconi furioso di questi giorni, trasudante minacce demagogiche e insensate come lo sciopero fiscale, è la copia del Berlusconi di dieci anni fa, con qualche capello in più, molte idee in meno e il solito, inestirpabile istinto eversivo. Perfino Haider, dopo il passaggio al governo, si è moderato. Il Prodi di questi mesi, impegnato a ripetere anche a se stesso che va tutto bene e bisogna essere ottimisti, è la replica del Prodi di dieci anni fa, quello del "gli faremo vedere i sorci verdi". Soltanto che qui la missione non è l´aggancio all´euro, la salvezza dell´economia. Ora si tratta appena di durare il più a lungo possibile. Sono tanti, troppi i segnali della morte di una stagione politica chiamata Seconda repubblica e vissuta finora sul duello Prodi-Berlusconi. I protagonisti sono gli stessi, il copione è identico, ma senza più un futuro. Siamo ai saldi di fine stagione.
La fine della Seconda repubblica non sarà tragica come la fine della Prima. Non ci sono inchieste epocali sulla grande corruzione, ma un fitto tramestio di complottardi, un segreto traffico di dossier, una sequela infinita di presunti scandali incomprensibili all´opinione pubblica, come l´affaire Visco-Speciale. Tutto si svolge a Palazzo, nell´indifferenza rassegnata o disgustata dei cittadini. Non ci sono per fortuna nemmeno le bombe, soltanto qualche gruppo d´idioti di provincia che inneggiano ai terroristi. L´unico punto in comune è la contemporanea debolezza di maggioranza e opposizione, l´assenza di una leadership in grado di proiettarsi negli anni.
E´ debole il governo, più nella politica che nei numeri. La storia recente d´Europa è piena di governi retti per anni da una maggioranza di tre, due, uno, mezzo parlamentare. Non è questo il punto. La questione è l´incapacità di scegliere una strada, un linguaggio, uno stile di governo, a volte una singola decisione, e di difendere la scelta fino in fondo. Finora il governo non l´ha fatto. Ha sempre reagito più che agire, schiavo dell´agenda politica dell´avversario, sempre sulla difensiva e per giunta senza mai azzeccare un contropiede. Si è comportato da minoranza ben prima di diventarlo nei fatti.
Ma è debole anche l´opposizione, incatenata a un vecchio padrone che molti non sopportano più ma nessuno ha il coraggio di sostituire, come si farebbe in un normale schieramento politico. Berlusconi comanda nella Casa delle libertà ma quando parla di elezioni anticipate, s´aggrappa al falso scandalo Visco per tirare la giacca al presidente Napolitano, allora davvero "abbaia alla luna", come dicono gli alleati centristi. L´escalation in politica ha le sue regole. Dopo lo sciopero fiscale, quale sarà il prossimo passo del capo dell´opposizione? Invocare la secessione del Nord più la Sicilia? Su questa strada, si può finire soltanto in due modi, nel dramma o nel ridicolo.
La fine della Seconda repubblica era scritta nella nuova legge elettorale. Si sapeva che prima o poi il virus del proporzionale avrebbe corroso e scomposto alleanze politiche già cucite col filo bianco. La cancellazione del vincolo fra elettori e rappresentanti ha fatto il resto, popolando il Parlamento di spostati. Poi le cose accadono come capita.

Siamo al principio della legislatura e già si respira aria di congedo. In un simile clima, non basterà certo cambiare la legge elettorale, in Parlamento o con i referendum, per restituire efficienza al sistema politico. Tanto più che la prossima legge elettorale, destinata a nascere sotto l´insegna dei ricatti, non promette di essere molto migliore dell´attuale. E´ possibile soltanto sperare in un rapido ritorno alla realtà da parte dell´esecutivo e della maggioranza, che si assumano finalmente una responsabilità collettiva, condivisa dell´azione di governo. Questo potrebbe dare il tempo anche all´opposizione di organizzarsi come una destra normale, non dipendente dalle trovate e ormai dalle bizze del padrone. L´alternativa è la caduta nel vuoto di potere. Un vuoto che in politica non dura a lungo e non sempre prepara l´avvento del nuovo e del meglio. A volte, come l´ultima, schiude anzi le porte al peggio del vecchio.


"Una classe dirigente senza ambizione nazionale"
Dario Di Vico sul
Corriere della Sera

Padoa-Schioppa: non c'è cura dell'interesse generale.

Una volta entrati nell'euro non avremmo dovuto accontentarci di essere gli specialisti della rincorsa, quelli che sanno riscattarsi solo dopo aver subito una cocente sconfitta. Tommaso Padoa-Schioppa per i titoli dei suoi libri predilige gli ossimori. E' così, dopo "Europa, forza gentile" ed "Europa, una pazienza attiva", va oggi in libreria "Italia, una ambizione timida", un volume che riordina la produzione giornalistica — da editorialista del Corriere — dell'attuale ministro dell'Economia e delle Finanze. La metafora dell'ambizione timida serve all'autore come leit motiv di una circostanziata riflessione sulle classi dirigenti del Paese, le loro virtù e i loro vizi. Perché, ammonisce, o si sviluppa l'orgoglio nazionale o per noi arriverà il tempo del declino. Tertium non datur.
"L'Italia ha un rapporto timido con l'ambizione perché non è uno Stato nazionalista — argomenta Padoa-Schioppa —, lo stesso Risorgimento non ha avuto una chiave aggressiva e le volte in cui ci siamo ribellati a questo cliché abbiamo collezionato disastri. Siamo caduti nel ridicolo. Penso ad Adua, alla guerra, a un certo modo di fare politica estera battendo i pugni sul tavolo". La nostra cultura storica è di tipo universalistico, romano, cristiano, umanista e tutto ciò ha finito per porre un limite all'ambizione nazionale. Non a caso le due forze che hanno occupato la scena politica nel dopoguerra, i cattolici e i marxisti, hanno una matrice metanazionale. Non ha aiutato anche una nozione assai ristretta di classe dirigente. "Quando in Italia si dice che c'è bisogno di classe dirigente si intende dire che c'è bisogno di un nuovo governo". E invece gli artisti, gli amministratori, i magistrati, i pubblicisti, i sindacalisti e gli imprenditori sono classe dirigente tanto quanto i governanti.
Osserva Padoa-Schioppa: "In Germania il presidente di un importante gruppo un giorno andò dal cancelliere Schröder per dirgli, in sostanza: "se qui non cambia qualcosa io trasferisco la sede sociale a Londra". E' possibile immaginare qualcuno che avrebbe lo stesso coraggio in Italia? Purtroppo la classe dirigente in Italia partecipa più che in altri Paesi alla critica della politica, denuncia molto più spesso di quanto non si senta lei stessa investita dell'interesse generale. Anche questa è una dimostrazione che c'è poca coscienza nazionale, poca ambizione. In un altro Paese, l'aver risanato i conti sarebbe stato un evento accolto in maniera assai diversa". Quando si riflette attorno alla qualità delle nostre élite si finisce quasi sempre per invocare un'Ena. Il ministro non si pronuncia. Preferisce elencare alcuni grandi incubatori. "Se provo a fare un elenco delle persone che sono uscite da Banca d'Italia, penso a Ciampi, Dini, Masera, Sarcinelli, Geronzi, Croff, Micossi, Galli, Natale D'Amico, Tarantelli, Savona e molti altri. Personalità assai diverse tra loro ma con un elemento di formazione comune, di scuola. Penso poi alla Normale di Pisa ma anche ad alcune grandi imprese e alla McKinsey, da cui io stesso ho imparato molto".
E il sindacato non è anch'esso un grande incubatore di classe dirigente? E' facile pensare agli attuali presidenti delle Camere o al sindaco di Bologna ma non si può non aver presente come ad ogni singhiozzo di una trattativa faccia seguito il ricatto di uno sciopero antigovernativo. "Certo che i sindacati in Italia fanno parte della classe dirigente. Gli accordi degli anni 90 con Ciampi ministro e presidente del Consiglio sono stati il punto di arrivo di un cammino cominciato molto prima. Penso alla Cisl che collaborava con Tarantelli e Vicarelli, all'intesa sui primi punti di sospensione della scala mobile, al ruolo di Bruno Trentin. Il sindacato nel tempo ha avuto modo di accettare cambiamenti fondamentali come la revisione della scala mobile, la riforma delle pensioni, la stessa legge Dini e quella parte della Dini che sono i coefficienti. Ma sovente convivono nella stessa casa l'Italia chiusa e quella aperta, i fautori della concorrenza e quelli della protezione e ciò avviene in ogni ceto, in ogni settore. Coesistono nell'università, nella Confindustria, nell'amministrazione pubblica, nel mondo della comunicazione e anche nel sindacato. Gramsci secondo me sbagliava: non c'è una classe di per sé progressista".
Nella politica europea chi ha sostenuto l'ambizione del proprio Paese ha finito quasi sempre per coniugarla con politiche protezioniste. Un'Italia più orgogliosa dovrebbe, invece, essere anche un Paese aperto. Siamo davanti a un altro ossimoro? Secondo il ministro l'Italia assomiglia un po' al Giappone, tutta la sua storia è segnata dalle aperture e dalle chiusure. Oggi noi siamo però un Paese aperto in uscita ma drammaticamente chiuso in entrata. Come fa a tornare uno scienziato che da dieci anni è negli Stati Uniti o un banchiere d'affari che è a Londra? Perfino i funzionari della Banca d'Italia che sono all'estero fanno fatica. La vischiosità delle élite produce anche questo. "E comunque nell'economia l'Italia per molti versi è più aperta della Francia e della Germania. Noi abbiamo rimpicciolito l'Enel per darne via dei pezzi, ridurre la sua quota di mercato, abbiamo aperto la rete ferroviaria alla concorrenza più di quanto abbiano fatto francesi e tedeschi. Abbiamo una legge sull'Opa che rende le società italiane più scalabili. Manchiamo caso mai di quegli elementi di coesione con i quali un sistema si autodifende. E in definitiva se altri Paesi usano la chiusura, il fare quadrato, per nutrire la loro ambizione all'eccellenza, da noi la chiusura serve a difendere piccoli privilegi e qualche corporazione".
Chi si apre però vince. E' il caso della Fiat che ha rinunciato alle protezioni, è il caso delle grandi banche. "Non c'è dubbio che la Fiat quando si è liberata dai vincoli, quando non aveva più la risorsa della svalutazione del cambio ha trovato, dopo una grave crisi, la forza di imporsi di nuovo sui mercati. E lo stesso vale per il credito. La proprietà pubblica ha fatto dei passi indietro con la legge sulle fondazioni e, siccome queste ultime si sono rivelate azionisti illuminati, hanno dato spazio ai manager e i frutti sono arrivati. Diceva giustamente il mio amico Alan Blinder che se gli Usa avessero protetto la General Motors, la Microsoft sarebbe nata in un altro Paese. Se vuoi tenere in piedi la vecchia industria siderurgica, non avrai mai Bill Gates".

Ma è proprio vero che dobbiamo penare con l'Alitalia, il tesoretto, le pensioni perché perdemmo nel '98, subito dopo l'ingresso nell'euro, la grande occasione di essere ambiziosi? Così Padoa-Schioppa sostiene nel suo libro e oggi aggiunge: "Se noi avessimo un debito pubblico dell'80% del Pil, avremmo da spendere circa 20 miliardi l'anno in meno per il servizio al debito. Con una cifra così avremmo già decongestionato il Nord, in un Paese che si muove a fatica da Torino a Venezia avremmo finanziato le infrastrutture giuste e avremmo messo a punto degli ammortizzatori sociali a livello delle grandi socialdemocrazie del Nord. E le assicuro che il rapporto tra cittadino e Stato sarebbe cambiato". E forse anche la critica della politica sarebbe meno devastante.


La concorrenza
Gimcana dei consumatori tra cavilli e spese
Barbara Ardu su
la Repubblica

ROMA - È più facile cambiare partner che abbandonare la propria banca, passare a un nuovo operatore di telefonia mobile, disdire l´abbonamento tv. Seguire le sirene della concorrenza si trasforma spesso in un calvario che in cima ha piantate tre croci: i tempi, i costi o tutti e due. Resistono al cambiamento banche, società di telefonia e pay-tv. Resistono alle picconate di Bersani, che con le sue "lenzuolate" sulle liberalizzazioni è deciso a rendere più facile e meno costoso cambiare. Se n´è accorta da tempo anche la Commissione europea, che ieri ha pubblicato il lavoro di un gruppo di esperti sugli ostacoli che incontra chi vuole cambiare banca: asimmetria delle informazioni, opacità dei prezzi, vincoli amministrativi, spese di chiusura. Problemi che le banche italiane stanno affrontando, replica l´Abi, attraverso il Consorzio Patti Chiari e che verranno superati quando sarà operativo lo spazio unico dei pagamenti europeo.
Il trasloco del conto corrente è infatti faticoso e pieno di insidie. Eliminati i costi di chiusura grazie al decreto Bersani, al cliente rimane il compito di avvisare quegli enti che sul suo conto prelevano o addebitano: il datore di lavoro, l´Inps, le società finanziarie che incassano le rate, gli abbonamenti tv. Un primo passo è stato fatto. Ci sono 17.000 sportelli che aderiscono all´iniziativa, "CambioConto" di Patti Chiari: si firma un modulo e la banca trasferisce le domiciliazioni bancarie sul nuovo conto. "L´ideale - spiega Mauro Novelli dell´Adusbef - sarebbe assegnare un codice bancario, sulla falsariga di quello fiscale, anche se il problema è a monte: le banche dovrebbero offrire contratti con condizioni valide per un anno, senza modificarle a ogni piè sospinto". Una nebbia fitta avvolge anche l´estinzione anticipata del mutuo. Da giugno chi sceglie di andarsene non paga più penali o paga penali ridotte sui vecchi mutui. "Notiamo però una certa resistenza da parte delle aziende di credito - dice Novelli - e il tentativo di imporre i loro usi. Allo sportello spesso non sanno dare risposte certe".
E fanno presto le società di telefonia mobile a lanciare promozioni. Chi chiede di cambiare operatore può attendere anche cinque mesi. Un esempio? Ci sono oltre 250mila clienti che spettano di passare da Tim a Vodafone. E al danno si aggiunge la beffa: "Se scelgo un nuovo operatore perché il mio modifica il piano tariffario - spiega Antonio Bosco dell´Adiconsum - sono costretto a pagare proprio per quello da cui volevo scappare". La portabilità del numero introdotta nel 2002 è ancora una chimera. E la situazione peggiorerà perché stanno arrivando sul mercato Coop e Poste italiane.
Staccare la spina di Sky o Fastweb è invece costosissimo, un salasso se si vuole recedere dal contratto nel primo anno. "Sky si è inventata una spese fissa di chiusura pari a 220 euro più 30, anche se ripartita nell´anno - accusa Mauro Vergani di Adiconsum - Fastweb ne chiede 217, cui se ne aggiungono altri 52 se si ha l´allacciamento tv". Proprio oggi l´Authority farà sentire la sua voce: l´orientamento è rendere rigoroso il rispetto della normativa Bersani: non devono esserci costi di uscita se non quelli legati alle spese aziendali. Un principio che vale anche per i gestori di Internet e della telefonia fissa (per abbandonare la linea chiedono dai 40 euro in su). Con le polizze sembra andare meglio. La prima "lenzuolata" di Bersani ha abbattuto a 15 i giorni entro i quali bisogna disdire l´Rc auto prima della scadenza del contratto.

E dal 1° luglio parte la liberalizzazione dell´energia: le famiglie potranno scegliere tra diversi fornitori. Un nuovo capitolo che per ora è fatto solo di offerte promozionali.


L'India lancia l'auto ad aria compressa
Maurizio Ricci su
la Repubblica

Arrivate al distributore con la macchina in riserva, ma mentre tutti gli altri fanno la coda alla pompa di benzina, voi andate direttamente alla colonnina d´aria per controllare la pressione delle ruote. Infilate il tubo nel serbatoio e... pfft! in 3-4 minuti avete fatto il pieno. Passate alla cassa, versate un euro e mezzo (contro i 60-70 degli altri) e ripartite sereni. La vostra macchina ad aria vi porterà per altri 200 chilometri fino al prossimo pieno. Non è un cartone animato e neanche uno spot visionario di qualche gruppo estremista dell´ecologia.
Dietro il progetto c´è la Tata, il più grande gruppo automobilistico indiano, appena reduce da un ambizioso accordo strategico con la Fiat. E, se tutto andrà come previsto, con qualche piccolo aggiustamento (ci vorrà un compressore ben più potente di quello delle ruote per sparare 340 litri di aria nel serbatoio), quella scena comincerà a svolgersi in India fra poco più di un anno, nell´agosto 2008, quando la Tata metterà in commercio le prime seimila Citycat, macchine ad aria compressa capaci di andare a 100 km l´ora e a emissioni zero, neanche una molecola di anidride carbonica e di effetto serra. E l´India sarà solo il primo passo: ci sono già accordi per portare la Citycat in 12 altri paesi, fra cui Germania, Francia, Usa, Spagna, Brasile, Israele e Sud Africa.
Ai profani, il motore ad aria compressa appare un incrocio fra la locomotiva a vapore e il vecchio, caro fucile Flobert dei giochi di antichi bambini. L´idea non è nuova. Guy Nègre, la cui Mdi è il partner della Tata nel progetto, ci lavora, con alterna fortuna e parecchie false partenze (compresa una italiana, con la Eolo) dal 1991. Sostanzialmente, si tratta di un motore a due cilindri, dentro cui si muove un pistone. Grazie ad un particolare design, il pistone non si muove in sincronia con l´albero motore. Per il 70% del tempo di rotazione dell´albero motore, il pistone resta fermo in cima al cilindro, consentendo alla pressione interna di crescere. Questo ritardo aumenta l´efficienza complessiva del motore, che si mette in azione quando l´aria compressa, sparata nel cilindro, fa muovere il pistone, esattamente come succede con il motore a scoppio. Quando l´auto si ferma, si ferma anche il motore, che riprende a funzionare quando si pigia l´acceleratore. Non ci sono marce, sostituite da un computer. Semplice com´è, richiede manutenzione praticamente zero e un cambio d´olio ogni 50 mila chilometri. Anche le emissioni di anidride carbonica sono zero, salvo quelle legate all´elettricità per far funzionare il compressore al momento del pieno.
Ad aria, però, non si va più veloce di 50 chilometri l´ora, cioè in città. Su strada - come accade anche con le ibride benzina-elettricità - entra in funzione un normale motore a scoppio. In compenso, non c´è bisogno di andare dal distributore, per l´aria. A casa, si attacca la spina della corrente e un compressore interno, in 4 ore, ricarica il serbatoio. Un po´ come accade per le più avveniristiche macchine elettriche. Il costo di esercizio della Citycat è più o meno lo stesso di una macchina elettrica. Senza le batterie, però. Infatti, costa molto meno: la Tata dovrebbe commercializzarla ad un prezzo di 12.700 dollari, un decimo di una macchina elettrica.

Per come funziona, è gratis anche l´aria condizionata: quella che esce dal tubo di scappamento è, infatti, a meno 15 gradi. Il rovescio della medaglia è la difficoltà di riscaldare l´abitacolo e, forse anche per questo, Guy Nègre sembra guardare soprattutto a paesi caldi.
La temperatura dell´aria è anche all´origine del più consistente dubbio che i tecnici avanzano verso il motore ad aria compressa. L´aria così fredda, infatti, gela la condensa nei condotti di aspirazione, bloccandone il funzionamento. Non è ancora chiaro come Nègre abbia risolto questo problema. Anche una Citycat perfettamente funzionante, peraltro, incontrerà seri ostacoli sui mercati occidentali. Per arrivare alle prestazioni dichiarate, infatti, l´auto deve essere straordinariamente leggera, e la Citycat è quasi tutta in fibra di vetro, molto fragile per reggere i normali test di sicurezza.



Bush accusa Putin: è un illiberale
Maurizio Molinari su
La Stampa

Per il discorso più importante del viaggio europeo George W. Bush sceglie il forum "Democrazia e Sicurezza" organizzato in un luogo denso di simboli: l'aula magna di Palazzo Czernin dove il Patto di Varsavia teneva le riunioni e dove suggellò la propria dissoluzione, segnando l'implosione del comunismo e la sconfitta dell'Impero sovietico. "Serve più libertà in Russia e Cina": parlando per 45 minuti di fronte a un platea di dissidenti giunti da cinque continenti il presidente americano, George W. Bush, declina la strategia di "libertà universale" in una agenda di politica estera che chiama in causa non solo Teheran, Damasco, Minsk, Karthum e l'Avana ma anche Mosca e Pechino.

"Agli occhi dell'America i dissidenti di oggi sono i leader di domani perché rappresentano le aspirazioni dei loro popoli" esordisce Bush, spiegando che "è questo il motivo per il quale abbiamo deciso di aiutarli". Prima con il varo del "Fondo per i difendere i diritti umani" e poi con le istruzioni al Segretario di Stato Condoleezza Rice affinché chieda a "ogni nostro ambasciatore nei Paesi non liberi" di "cercare e incontrare gli attivisti che si battono per democrazia e diritti umani".

Bush si richiama al discorso pronunciato dopo la rielezione nel 2004 nel quale indicò l'obiettivo di porre fine alla tirannia nel mondo, fa leva sul valore della "libertà universale", cita lo spagnolo Josè Maria Aznar, il ceco Vaclav Havel e l'ex dissidente sovietico Natan Sharansky come "grandi avvocati della libertà nel nostro tempo" e include Giovanni Paolo II fra gli eroi della lotta al comunismo al fine di riepilogare alla platea le premesse del passo che compie: scegliere il rispetto della libertà e dei diritti umani come criterio della propria politica estera.

Da qui la suddivisione del mondo in differenti gruppi di Paesi. Le "peggiori tirannie" sono le "società chiuse nelle quali il dissenso è totalmente soppresso": Nord Corea, Iran, Cuba, Sudan, Birmania e Zimbabwe. "Gli iraniani sono un grande popolo - dice, incalzando gli ayatollah - ma la loro libertà è negata da un gruppo di estremisti che persegue le armi nucleari". Il tono con l'Avana è simile, poi vi sono i Paesi dove "la libertà è sotto assedio" a causa di governi illiberali: il Venezuela di Chavez dove "vengono smantellate le istituzioni democratiche" e l'Uzbekistan dove "le voci indipendenti finiscono in cella".

Per scardinare i dispotismi Bush fa appello ai popoli oppressi, chiedendo di prendere esempio dalle "nuove democrazie" ovvero un terzo gruppo di nazioni, riuscite a liberarsi senza violenza dai lacci dei tiranni: Ucraina, Georgia e Kirghizistan. Dietro a loro la "stagione delle riforme" si affaccia in Kuwait e Yemen mentre in Libano, Afghanistan e Iraq le giovani democrazie devono difendersi dal peggior nemico:l'estremismo musulmano.

Tale richiesta non si ferma ai confini delle maggiori potenze: Russia e Cina. E' la fine del discorso ma gli applausi dell'aula ne sottolineano l'importanza. "Applichiamo lo stesso approccio alle relazioni con Russia e Cina" sottolinea Bush, recapitando a entrambi messaggi inequivocabili. "I leader cinesi credono di poter continuare ad aprire l'economia senza fare altrettanto con il sistema politico" mentre "in Russia le riforme promesse ai cittadini hanno deragliato, con inquietanti implicazioni per lo sviluppo democratico". Bush parla di "disaccordo" con tali politiche di Pechino e Mosca, ammonendone con un linguaggio che si richiama a Ronald Reagan: "Continueremo a costruire i rapporti con loro ma senza abbandonare i nostri principi e valori



Il Presidente difficile
Alberto Ronchey sul
Corriere della Sera

L'incubo è che sabato prossimo, con la visita di George W. Bush a Roma, possano ripetersi le violenze di Rostock alla vigilia del G8. Quella volta che Richard Nixon, a Roma, fu investito da manifestazioni di frenetica ostilità, concluse la sua visita commentando: "Un giorno da dimenticare". Correvano i tempi del Vietnam. Ora, non sappiamo come reagirà Bush contestato per la guerra in Iraq e altre brucianti vertenze internazionali. Ma ben oltre le dimostrazioni di piazza, più o meno virulente contro il texano di Washington visto da vicino, l'occasione sarebbe favorevole a un tentativo aggiornato d'intendere la personalità che dal 2000 governa la superpotenza e decreta le sue scelte strategiche. La questione implica una serie di domande.
Perché Bush, dopo l'11 settembre 2001, non si limitò a reagire con l'intervento nell'Afghanistan dei talebani, che ospitavano Bin Laden e le basi del terrorismo di Al Qaeda? L'Onu aveva riconosciuto la piena legittimità di quell'intervento. Senza il conforto dell'Onu, invece, Bush decise nel 2003 la guerra in Iraq. Le informazioni pubblicizzate allora sulle armi di Saddam Hussein, come pericolo incombente, non sono state mai suffragate da prove. Ma quel conflitto, prolungato dal dopoguerra guerreggiato, ha impedito la concentrazione di forze a presidio dell'Afghanistan, tuttora fuori controllo. E il baratro iracheno, sfociato in guerra civile, ha consentito poi all'Iran d'aspirare all'egemonia incontrastata nel Golfo, con ambizioni di nazionalismo atomico. Era previsto?
Dinanzi a simili domande, una spiegazione ancorché parziale può risalire alle circostanze nelle quali Bush nel 2000 potè raggiungere la Casa Bianca, prevalendo sul concorrente Al Gore non per un chiaro suffragio popolare, ma dopo il contenzioso giudiziario sugli scrutini della Florida per decisione della Corte suprema con 5 voti contro 4. "Una cappa d'illegittimità incombe sul discorso inaugurale di Bush", commentava persino lo Hindustan Times, come ricorda Mark Hertsgaard in The Eagle's Shadow.
Da quell'episodio derivò forse per Bush jr un'ansiosa ricerca di legittimazione come "presidente forte", capace dopo l'11 settembre di placare lo sgomento degli americani con la massima risolutezza, giungendo fino a Bagdad e all'eliminazione di Saddam. Sta di fatto che i rischi del dopoguerra, in quel contesto etnico e politico, furono imprevisti o sottostimati.
Eppure, malgrado il corso degli eventi e la sconfitta subita nelle recenti elezioni di mid-term, Bush rimane imperturbabile. Overconfident su se stesso e i suoi giudizi, insiste: "Compito degli Stati Uniti è promuovere la democrazia nel mondo, anche nei luoghi che non sembrano troppo ospitali". Quanto poco lo fossero è forse tardi per prenderne atto.

Agli europei, Bush dal 2003 è spesso apparso apodittico. Tuttavia ora Sarkozy sembra incline, come Frau Merkel, a giudicare che l'agenda internazionale presenta troppe controversie rischiose per trascurare i rapporti fra "carolingi e texan": oltre all'Iraq e all'Afghanistan, le ultime vicende libanesi e israeliane, il nucleare iraniano, il difficile accordo sul global warming, lo scudo antimissili Nato che a ragione o a torto allarma Putin. Davvero troppe incognite. Fino alla scadenza del mandato di Bush, per un altro anno e mezzo si dovrà dunque trattare strenuamente con il "presidente difficile".


  6 giugno 2007