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I sessantenni monzesi ricordano la seconda Guerra Mondiale
Un libro di memorie di ieri, letto con gli occhi di oggi (ed. Novaluna - 8 euro)
di Mauro Reali



Giocavamo alla guerra

La guerra vista con gli occhi dei bambini non è un tema del tutto nuovo, sia per quanto riguarda il cinema che per quanto concerne la letteratura. Pensiamo infatti a film come Arrivederci ragazzi, del grande regista francese Louis Malle o al nostrano - toccante e leggero nel contempo - La vita è bella di Roberto Benigni; a mio modesto avviso, però, nessun film o libro sull'argomento ha mai superato Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, romanzo ove si rappresenta la Resistenza attraverso le gesta di Pin, bambino “sbandato” in cui convivono in ugual misura cinismo e utopia. Qualcosa di più recente – e di ancor più amaro, senza speranza – è il rapporto tra un giovane bambino afgano e la guerra nel suo paese che compare nello splendido libro Terra e cenere di Atiq Rahimi, già recensito sull'Arengario.

Ma perché tutte queste citazioni, più o meno dotte? Perché sto “tirando in lungo”, come se volessi rimandare il “sugo” della recensione? Perché ho voluto mettere i lettori al corrente dei numerosi e confusi pensieri e confronti che mi sono venuti in mente leggendo il bellissimo Giocavamo alla guerra. Memorie di giovani monzesi, edito da Novaluna, dicembre 2002, raccolta di testimonianze (curata da Beppe Colombo) di monzesi di nascita o d'adozione che erano bambini durante la seconda Guerra Mondiale e che oggi superano i sessant'anni. Si tratta di 25 racconti divisi in tre sezioni (Infanzia d'altri tempi, La bufera della Guerra, I giorni della Liberazione), nei quali ho riconosciuto non solo alcuni dei riferimenti artistici cui ho sopra alluso, ma anche molti dei racconti che io – quarantenne – avevo già udito dai miei genitori, allora non proprio bambini ma comunque giovani cresciuti troppo in fretta.

Non so se faccio bene, ma non voglio citare ad personam nessuno degli “ex bambini” che hanno scritto queste storie: mi piace pensare che sia stata una generazione intera a scriverle, composta anche da quelli che non ci sono più o che sono – per motivi più vari – estranei a questo libro. Essere piccoli e trovarsi misteriosamente privi dei nonni (morti in qualche campo nazista…) senza sapere il perché e senza osare chiedere nulla ai genitori anche dopo la guerra; finire – abbandonata la casa – sfollato in qualche località lontana, oppure essere nascosto in qualche rifugio tra i monti da un prete caritatevole; temere di morire ammazzato dai tedeschi in cerca di rappresaglie; ma anche – pure compatibilmente coi tempi – sapere ridere o scherzare con gli amichetti… Tutte queste cose sono successe a molti (forse a tutti, pure con sfumature diverse) i “bambini di guerra” d'ogni epoca (dal prossimo gennaio anche ai piccoli irakeni? Temo proprio di sì…), e si trovano qua e là tra le pagine di questo commovente libro-documento. Libro che mostra bambini allora ancora troppo piccoli per capire da che parte stesse il “bene” e da che parte il “male” (la Storia, quella con la S maiuscola, l'ha poi insegnato a loro e a tutti noi: guai a chi la voglia riscrivere!), ma che – come appare in una testimonianza – si erano già accorti che nei poveri negozi rimasti i fascisti rubavano la merce e i partigiani pagavano il conto…e scusate se è poco!

Due sole le citazioni che vorrei fare, e sono relative a fotografie presenti nel testo: a pagina 48 i gerarchi fascisti inaugurano l'anno scolastico del 1940 al liceo “Zucchi”, a pagina 82, invece, si raffigura la campana dell'Arengario di Monza che si avvia alla fusione del “bronzo per la Patria”. Le cito perché sono – a mio avviso – simboliche di un'epoca, perché si tratta di situazioni paradossali, caricaturali (si pensi alle scuole fasciste irresistibilmente parodiate ne La vita è bella di Benigni), di una Monza e di un'Italietta che il delirio nazifascista e la colpevole leggerezza dei Savoia conducevano verso il baratro della Guerra Mondiale e della discordia civile: se non ci fosse stato da piangere (e tanto!) a vedere oggi queste foto ci sarebbe solo da ridere! Ma proprio dall'educazione impartita poi allo “Zucchi”, e in generale nella libera scuola italiana del Dopoguerra - frequentata da quegli ex bambini… - e dal senso civico di quei giovani italiani oggi ultrassantenni – a Monza simboleggiato proprio dal “civico” Arengario – è nata per noi (figli di quegli “ex bambini”) e per i nostri figli un'Italia fatta di pace, democrazia, libertà e lavoro: ci pensino bene quelli che ora ne vogliono cambiare la Costituzione, che se è anzitutto figlia dei Padri Costituenti che l'hanno scritta lo è nondimeno di questi “ex bambini” che l'hanno vista nascere e l'hanno amata e rispettata per tutta la vita!

Mauro Reali

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  20 dicembre 2002