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La settimana in rete
Il Giorno della Memoria
a cura di Franco Isman - 30 gennaio 2005


forni crematori - il progetto
forni crematori - il progetto

Shoah: sterminio, non olocausto, come malamente tradotto. Lo sterminio, il genocidio del popolo ebreo, attuato con una volontà perversa che superava qualsiasi razionalità, con i trasporti dei deportati destinati alle camere a gas che avevano la precedenza anche sui treni militari, con 400.000 ebrei ungheresi portati alla morte quando ormai l'esercito del Reich era in rotta e la sconfitta sicura. Sei milioni di ebrei sterminati, tre milioni soltanto in Polonia, dove sono praticamente scomparsi. Ma anche 400.000 zingari, Rom e Sinti, Testimoni di Geova, omosessuali, minorati, oppositori politici. E i soldati prigionieri nei campi di lavoro forzato. Altri genocidi ci sono stati, prima e dopo la Shoah: gli Armeni agli albori del 1900, i Tutsi nel 1994 e altre stragi, basti pensare a Pol Pot col suo milione di morti. Ma nessuno così scientificamente programmato e pervicacemente attuato, in una delle nazioni più progredite e più colte della vecchia Europa.

Il Giorno della Memoria, istituito con legge dello Stato nel 2000, è stato simbolicamente fissato al 27 gennaio, data della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. Altre Nazioni hanno scelto altre date simboliche. Quest'anno, sessantesimo anniversario, l'apertura dei cancelli di Auschwitz, con la rivelazione al mondo delle barbarie commesse, è stata celebrata con particolare solennità, con la partecipazione di una quarantina di capi di Stato e di governo europei, ma con l'assenza non soltanto delle nazioni islamiche ma in generale di quelle extra europee. E con qualche stonatura: Vladimir Putin che afferma che non esistono nazisti buoni e nazisti cattivi, come non esistono diversi tipi di terroristi e Silvio Berlusconi che non riesce a non fare l'eterna citazione degli orrori del comunismo.
E la struggente cerimonia, nella neve e nel gelo dell'inverno polacco (ma voi rimanete all'aperto per poche ore, ben coperti dalle vostre pellicce e non potete nemmeno immaginare cosa potessero significare gli appelli di mattina e sera, immobili, coperti da pochi stracci, hanno ricordato alcuni sopravissuti dai campi), ha avuto il significato della consegna del testimone del ricordo da parte dei sopravissuti, che fra dieci anni non ci saranno più, alle nuove generazioni.
Perché dimenticare non si deve.

forni crematori - esterno    forni crematori - interno

Primo Levi - La tregua


La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era piú alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e cosí era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.



Auschwitz 1944, uno scatto sull'orrore
Milioni di fotografie inedite della Raf disponibili sul Web. Le immagini documentano, tra l'altro, le atrocità naziste cinque mesi prima dell'arrivo degli alleati
Alessio Altichieri sul
Corriere della Sera del 18.01.2004

il campo di Auschwitz con la cremazione all'aperto
il campo di Auschwitz con la cremazione all'aperto

LONDRA - Questa è Auschwitz, vista dall'alto, sono le 11 del mattino del 23 agosto 1944. Dal cielo, il campo di sterminio che è diventato sinonimo dell'Olocausto pare un baraccamento militare, o un enorme campeggio estivo. Invece è la più mostruosa macchina di assassinio costruita dall'uomo, in piena attività: si vede una colonna di fumo che s'alza da una fossa comune e, con ingrandimenti resi possibili dall'altissima definizione, si vedono pure i prigionieri in coda per l'appello finale, prima della morte. Auschwitz, nell'estate del '44, lavorava come una catena di montaggio dello sterminio: la sconfitta della Germania era sentita vicina e i nazisti s'impegnavano freneticamente per eliminare gli ebrei ungheresi, almeno 437 mila persone, quando un aereo da ricognizione della Raf, l'aviazione britannica, sorvolò quel lembo di terra, oggi Oswiecim in Polonia, e scattò questa foto. Purtroppo, l'immagine rimase sepolta per sessant'anni, fino a ieri. Oggi è un documento che ci restituisce, visto mentre accade, il genocidio.

Perché questa straordinaria fotografia, ora rilasciata dai National Archives di Londra, non fu mai pubblicata? Le ragioni sono molte, e alcune amare da confessare. Nell'estate del '44 lo sterminio degli ebrei, se non la sua portata, era già noto agli alleati, perché denunciato a Washington e Londra dalle stesse organizzazioni ebraiche. Ma il pubblico britannico e americano sapeva poco, perché poco gli era stato detto e, in guerra, la priorità non era salvare i prigionieri nei campi, bensì battere Hitler prima che sviluppasse armi devastanti. Perciò la Raf setacciava il territorio nazista alla ricerca di strutture militari e industriali: gli aerei scattavano foto alla velocità d'un mitragliatore, e forse neppure chi colse quest'immagine notò qualcosa di particolare. La tecnologia aveva prodotto macchine fotografiche così veloci che nessuno poi, in Gran Bretagna, poteva passare in rassegna l'enorme materiale raccolto.
Così lo scatto, sepolto tra altri cinque milioni, fu ignorato fino a quando, l'anno scorso, i National Archives diedero l'intero lotto alla Keele University, perché l'adattasse, in forma digitale, per essere processato su computer. E n'è uscito questo documento unico - «estremamente emozionante», secondo l'uomo che l'ha scoperto, Allan Williams - che testimonia l'orrore della storia.

E la storia è questa. Nella sua ultima estate di attività, Auschwitz (o meglio Auschwitz II: il campo di sterminio di Birkenau, cui queste foto si riferiscono) era come sopraffatta dalla fretta di sterminare il maggior numero di persone, in un'aberrante corsa contro il tempo. Le camere a gas uccidevano a una tale velocità che i forni crematori non facevano in tempo a eliminare i cadaveri, sicché i nazisti organizzarono fosse a cielo aperto dove i corpi delle vittime venivano gettati e bruciati.

Dopo questa foto, le camere a gas di Auschwitz avrebbero continuato il massacro per altri cinque mesi. Il campo fu liberato il 27 gennaio 1945, nel cui anniversario si celebra il giorno della Memoria, e l'entità dello sterminio cominciò a essere divulgata.

Era la stessa condizione psicologica dei piloti della Raf: l'anonimo fotografo «non sapeva che cosa stava accadendo - dice Williams -, gli operatori avevano l'ordine di fare ricerche con lo scopo di trovare informazioni militari. Non avevano il tempo di pensare a che altro poteva accadere». Noi che sappiamo che cosa cercare, invece, possiamo trovare in questa miniera d'immagini, di cui Auschwitz '44 è la scoperta più importante, le prove di un passato che ancora dà lavoro agli storici. Nei milioni di scatti della Raf ci sono le immagini di Colonia prima e dopo il bombardamento, dello sbarco in Normandia e di altri capitoli fondamentali della lotta al nazismo. Tanto che già Spielberg, il regista, ha scandagliato questo archivio, per cercare dettagli che ha usato in Band of Brothers , una serie televisiva. Da domani, l'immagine di Auschwitz, assieme a molte altre, sarà consultabile sul sito www.evidenceincamera.co.uk al prezzo di dieci sterline. L'inferno, sessant'anni dopo, arriverà sul nostro computer.

il campo di Auschwitz con la cremazione all'aperto
il significato di quel fumo


« Piango ancora per quei piccoli ebrei »
Il discorso di Simone Veil, ex deportata, già presidente del Parlamento europeo

È con il cuore stretto dall'emozione che mi rivolgo a voi tutti, qui riuniti. Sessant'anni fa cadevano i recinti elettrificati di Auschwitz- Birkenau e il mondo restava attonito di fronte alla più grande carneficina della storia. Prima dell'arrivo dell'Armata Rossa, tanti di noi furono condotti in quella marcia della morte che tanti altri vide soccombere.
Oltre un milione e mezzo di esseri umani furono assassinati in questo luogo, per la maggior parte gasati appena arrivati, soltanto perché nati ebrei. Con un semplice gesto Mengele decideva della vita e della morte di uomini, donne, bambini, spinti brutalmente giù dai vagoni e radunati su questa rampa: centinaia di migliaia di ebrei selezionati così, perseguitati e braccati in Europa. Cosa sarebbero diventati quei piccoli ebrei ancora bambini o già adolescenti, uccisi nei ghetti e nei campi di sterminio: filosofi, artisti, grandi saggi, abili artigiani, madri di famiglia? Ancora piango quando penso a loro, non potrò mai dimenticarli.
Non bastava annientare i nostri corpi. Dovevamo perdere l'anima, la coscienza, l'umanità.
Privati d'identità sin dal primo istante, con quel numero che portiamo ancora stampato sul braccio, non eravamo altro che stück , pezzi. Il tribunale di Norimberga, giudicando gli alti responsabili accusati di crimini contro l'umanità, riconobbe l'oltraggio recato non soltanto alle vittime, ma all'umanità intera. Eppure, la speranza di noi tutti, « mai più » , non è stata esaudita, altri genocidi sono stati perpetrati.
I Paesi europei che, per due volte, hanno trascinato il mondo nella loro follia omicida, hanno saputo affrontare i vecchi demoni. In questi luoghi che hanno conosciuto il male assoluto, deve rinascere la volontà di realizzare un mondo fondato sulla fratellanza, sul rispetto dell'uomo e della sua dignità.
Dobbiamo essere vigili, e difenderla non soltanto dalle forze della natura che la minacciano, ma ancor più dalla follia umana.
Noi, ultimi sopravvissuti, abbiamo il diritto, e il dovere, di mettervi in guardia e chiedervi che il « mai più » dei nostri fratelli diventi realtà.
( traduzione di Maria Serena Natale sul Corriere della Sera)

il simbolo


Quel bambino di nome David
Enzo Biagi sul
Corriere della Sera del 27.01.2005

Non si cancella il passato: su un muro di Auschwitz lessi: « Chi non conosce la storia sarà costretto a riviverla » .
C'è un giorno per ricordare: prima, però, raccontiamo che cosa accadde, di quante infamie sono capaci gli uomini, perché i nostri figli sappiano.
Una volta, tanti anni fa, andai nel ghetto di Varsavia. Gli uccelli e il vento avevano lasciato cadere qualche seme tra le macerie, e da una finestra spuntavano le foglie di un susino. C'era, e credo ci sia ancora, un monumento con nastri, corone e una lapide. Annotava: « Il popolo ebraico ricorda il sangue dei suoi martiri » .
Allora non pensavo che avrei avuto una tenera nipotina che di nome si chiama Rachele, e una notte ho sognato, io che non ricordo mai le avventure notturne, che la tenevo per mano e non la lasciavo mai, e scappavamo nei boschi dove sono stato partigiano. Ho quattro nipoti: per lei, quando vado a certe funzioni della sua fede, metto il cappello, per gli altri lo tolgo.



Quando l´Europa perse l´innocenza
Denuncia del presidente israeliano ai leader europei presenti: "Molti sapevano ma non agirono". l´Europa davanti ai suoi rimorsi
Andrea Bonanni su
la Repubblica

Quando lo stridore di freni del treno piombato torna a risuonare per la spianata del campo rompendo il silenzio pieno di neve, sul volto rugoso dei tre sopravvissuti schierati a reggere le bandiere passa per un istante l´ombra di un´angoscia inesprimibile. È in quella frazione di secondo che la solenne liturgia della memoria, inscenata ieri nel campo di Auschwitz, perde ogni coreografia cerimoniale e diventa un momento di verità straziante. L´Olocausto è lì, nel terrore animale che dopo sessant´anni può ancora deformare un viso ormai scolpito dal tempo, molto più che in tutte le belle e nobili e terribili parole che verranno pronunciate ai piedi delle rovine dei forni crematori e delle camere a gas.
Birkenau è coperta di neve e di ghiaccio, proprio come quel 27 gennaio del ´45, quando i primi soldati dell´Armata Rossa arrivarono al campo e la coscienza del mondo perse per sempre la propria innocenza. Da quell´istante molte cose, nel linguaggio, nel pensiero e nell´anima degli uomini sono cambiate in maniera che si spera definitiva. Da quel momento sappiamo, o dovremmo sapere, che il male assoluto esiste, ed è una categoria dell´umano e non più del divino.
La cerimonia di ieri è la prima di una serie di commemorazioni che segneranno i sessant´anni dalla fine della guerra. Altre ne seguiranno, per ricordare la vittoria degli Alleati, o il lancio delle prime atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ma il significato di quello che è avvenuto ieri tra i reticolati e le rotaie di Birkenau, il più terribile dei tre campi di sterminio di Auschwitz, va ben oltre il ricordo del più sanguinoso conflitto della storia dell´umanità. E´ stato il tentativo straziante di una generazione ormai giunta alla fine di consegnare ai posteri la memoria vivente di quell´orrore. Una memoria che deve continuare al di là della sopravvivenza fisica di chi la conserva tatuata sulla propria pelle.
Nel più grande cimitero del mondo, dove sono state disperse le ceneri di un milione e mezzo di ebrei, di polacchi, di russi, di zingari, di resistenti provenienti da tutta l´Europa, un manipolo di sopravvissuti ha cercato di consegnare i ricordi e gli incubi che li hanno accompagnati in questi sessant´anni, perché il mondo non smetta di riflettere anche dopo che gli ultimi scampati avranno raggiunto i loro morti.

Perché il male assoluto è indivisibile. E se è vero che ci sono vittime e carnefici e che non esistono colpe collettive ma precise responsabilità, come ha ricordato ieri con parole terribili Elie Wiesel, è anche vero che pochi, o nessuno, in Europa, possono davvero considerarsi innocenti. «Il mondo sapeva della distruzione degli ebrei europei, ma rimase zitto e questo resterà come un marchio di infamia sulla fronte dell´umanità», ha denunciato ieri il presidente israeliano, Moshé Katzav.
Ma di fronte alla presenza massiccia e doverosa dell´Europa ieri spiccava dolorosamente l´assenza, sulla spianata di Auschwitz, del resto del mondo. Non si sa se per scelta delle autorità polacche che hanno organizzato la cerimonia, o per quella stessa indifferenza che ha mandato semi-deserta la seduta commemorativa alle Nazioni Unite, non si sono visti ieri né asiatici, né africani, né arabi né sudamericani. Quasi che l´Olocausto fosse riducibile ad un affare europeo. Quasi che gli eccidi in Ruanda o in Cambogia che, come ha ricordato Simone Veil, hanno fatto rivivere lo stesso orrore sotto altri cieli e altre latitudini, non dimostrassero che il male assoluto è forse il precursore di ogni globalizzazione.
Ma l´Europa, almeno quella, c´era tutta.

Anche per questo, ieri, sono suonate sgradevolmente fuori luogo le parole di chi, nonostante la solennità dell´occasione, ha cercato in modo più o meno velato, più o meno legittimo, di aggiustare secondo le proprie convenienze la coperta dell´Olocausto. Stonato Putin, quando con un occhio alla Cecenia ha voluto stabilire un parallelo assoluto tra i crimini del nazismo e quelli odierni del terrorismo. Stonato Berlusconi incapace proprio lì, tra il filo spinato di Auschwitz, di ricordare gli orrori di Auschwitz senza evocare in parallelo quelli «del comunismo», quasi che il Male debba essere diviso e catalogato secondo una "par condicio" da tribuna elettorale.
Sacrosante, invece, le preoccupazioni dei molti responsabili politici che, compresi Putin e Berlusconi, in occasione del giorno della memoria, hanno evocato il pericolo di dimenticare, la minaccia dell´intolleranza, il rischio di nuove vampate di antisemitismo. Perché, come ha ricordato ieri da Londra Tony Blair ricevendo con la regina i sopravvissuti della Shoa, «l´Olocausto non è cominciato ad Auschwitz, ma con la prima pietra lanciata nella vetrina di un negozio ebraico, con la prima profanazione di una Sinagoga, con il primo insulto razzista lanciato per strada».
E´ questa la lezione che si poteva e si doveva leggere ieri nel trasalimento dei vecchi sopravvissuti di fronte alla sirena del treno di Auschwitz.

arrivo e selezione    la rampa di arrivo oggi

Auschwitz, il mondo ricorda
Gianni Marsilli su
l'Unità

Non era previsto dal cerimoniale l'urlo rauco di quella donna anziana ma vigorosa, l'unica senza cappotto nel gelo di Birkenau. Si è messa al fianco di Moshe Katsav, il capo dello Stato d'Israele, e ha aspettato che terminasse il suo discorso. Poi ha preso con decisione il microfono, si è scoperta l'avambraccio e ha mostrato alla folla di presidenti e primi ministri il numero tatuato: «Perché ci hanno messo la stella gialla? Perché ci hanno portato qui? Avevo sedici anni quando sono arrivata ad Auschwitz…». Voleva solo gridare il suo dolore rabbioso, e al contempo il suo orgoglio vitale: «Oggi sono cittadina d'Israele, amo il mio paese…non deve accadere mai più!». Ha parlato per un minuto, poi è tornata al suo posto, giusto dietro le autorità, assieme agli altri sopravvissuti. Sono stati in tanti, a sfidare i meno dieci e la neve che non ha smesso di cadere fitta neanche per un minuto, gli ex deportati che sono venuti qui ieri. Per molti sarà l'ultima volta, anche per questo il 60° della liberazione del campo non è stato simile a nessun altro anniversario. Mai era stata officiata una cerimonia con tanto impegno e partecipazione. Mai un tale ecumenismo politico e religioso ha ricordato gli orrori che qui si consumarono.
Neve e fuoco. Come sessant'anni fa. La neve ha accompagnato la cerimonia, il fuoco l'ha chiusa: seicentocinquanta metri di binari improvvisamente avvolti da fiamme che correvano sinistre e parallele. Proprio «quei» binari, che sono sempre qui a Birkenau e che allora portavano alla rampa della selezione: uno di qua, abile al lavoro, quattro di là, buoni per il gas e la cremazione. Quando si è fatta sera lo spettacolo chiudeva la gola: la luce fioca di mille candele nella neve, quella incerta dei riflettori sui resti dei forni crematori, quella viva dei binari, e tutto intorno buio nell'immensa pianura. Il fischio di un treno e lo stridìo di una brusca frenata avevano aperto la cerimonia, il rumore di un treno che si rimetteva in marcia ne ha siglato la fine. Pochi degli ex deportati avevano resistito fino a quel momento. Il freddo, in qualche caso l'emozione l'avevano avuta vinta, ed assistevano più in là, al coperto davanti agli schermi.
C'erano quelli che di sé stessi ieri avevano deciso di fare una prova vivente dell'obbrobrio, affinché dopo di loro non si dimentichi, ed esibivano davanti alle telecamere gli avambracci numerati, foulard e berretti a righe bianche e blu, i colori dei deportati, con una specie di amarissima fierezza.

L'Europa è sfilata a quel microfono eretto davanti al monumento più significativo del continente. L'Europa di Simone Veil, la voce netta, il volto forte. Era bellissima a sedici anni, quando arrivò qui ad Auschwitz. Lei si salvò, non sua madre né il resto della famiglia. Ha avuto, lei che è stato il primo presidente del Parlamento europeo, parole di fiducia: «I paesi europei sono riusciti a superare i loro vecchi demoni…». L'Europa di Wladyslaw Bartoszewski, straordinaria biografia di polacco di Varsavia.

Ha denunciato l'indifferenza degli alleati, che sapevano ma non bombardarono: «Il mondo libero non s'interessava della nostra sorte, malgrado la Resistenza li avesse informati…». L'Europa di Romani Rose, presidente dei gitani europei, l'unico a parlare in tedesco: «Himmler già nel '38 evocava la necessità di una soluzione finale della questione gitana». L'Europa del cardinale Lustiger, che ha parlato a nome dell'ex arcivescovo di Cracovia, oggi Giovanni Paolo II: «Non è permesso a nessuno di passare con indifferenza davanti ad Auschwitz…».
Solo tre i leader politici che hanno preso la parola. Il polacco Aleksander Kwasniewski: «Sono stati gli ebrei a subire le conseguenze più atroci…». Ha reso omaggio all'Armata Rossa e all'Unione Sovietica «che liberò Berlino ed ebbe venti milioni di morti», e ha decorato i russi liberatori. Il russo Vladimir Putin, il più breve e conciso, che ha rivendicato all'esercito sovietico di «aver liberato la Polonia» ed è stato l'unico a parlare anche del presente: «Non ci potevano essere nazisti buoni o cattivi, come non ci possono essere terroristi buoni o cattivi», e tutti hanno pensato alla Cecenia. Il presidente israeliano Moshe Katsav: «Il mondo sapeva che gli ebrei d'Europa venivano sterminati e ha continuato ad ignorarli…

Infine la preghiera ecumeni a, i canti della Shoah a cappella, senza parole, un solo lungo lamento, l'Orchestra filarmonica nazionale polacca, i cori dell'Alta Slesia e della Radio di Cracovia, la deposizione delle candele davanti ad ognuna delle steli in pietra, una per paese, una per lingua della magnifica babele che arrivò ad Auschwitz e che da Auschwitz non tornò. Nevicava ancora, quando si è sentito nel buio il rumore di un treno: era il segnale di chiusura della cerimonia. Contro l'oblìo, perché non accada di nuovo.

la selezione    la selezione

La persecuzione nazista degli zingari
un libro di Guenter Lewy – presentazione di Sergio Luzzatto

Con la loro cultura nomade gli zingari rappresentavano per i nazisti un'inaccettabile anomalia dell'ordine sociale e minacciavano la «purezza della razza». Perseguitati e deportati nei campi di sterminio vi morirono a migliaia: una strage assai poco conosciuta e troppo spesso dimenticata.

Sudici, pigri, infidi, disonesti: i peggiori stereotipi legati all'immagine degli zingari circolarono tanto piú diffusamente nella Germania hitleriana, quanto piú l'ideologia nazista era fondata sul mito della purezza della razza e sull'incubo rappresentato dai cosiddetti «asociali». Alla prova dei fatti, i pregiudizi negativi non mancarono di tradursi in pratiche discriminatorie e persecutorie.
Grazie al libro di Guenter Lewy, finalmente disponiamo di un'analisi sistematica del trattamento riservato dal nazismo alle decine di migliaia di sinti e di rom che, per quanto di cultura nomade, erano stanziati entro i confini del Terzo Reich. Da subito dopo l'avvento di Hitler al potere, si cercò di risolvere il «problema degli zingari» con ogni mezzo: operazioni di custodia preventiva, un'accurata tassonomia razziale, apposite leggi sulla sterilizzazione. Poi, apertamente si invocò una «soluzione finale» non soltanto per la questione ebraica, ma anche per quella tsigana. Scoppiata la seconda Guerra mondiale, diverse migliaia di zingari furono deportati nella Polonia occupata e reclusi nei campi di concentramento (soprattutto ad Auschwitz). Dopodiché, fra 1941 e '42, l'invasione dell'Unione Sovietica segnò l'apertura della caccia agli zingari dell'Europa orientale, immancabilmente trattati come spie e metodicamente eliminati.
Lo sterminio degli zingari fu o non fu un genocidio comparabile a quello degli ebrei? Qualunque sia l'opinione di Lewy in proposito, compiuta la lettura di questo libro riesce difficile accettare che un giorno del calendario sia stato istituito, in molti paesi occidentali, quale «Giorno della memoria» della Shoah anziché del Genocidio in generale. Come gli armeni sterminati dai turchi all'inizio del Novecento, come i tutsi sterminati dagli hutu nel Rwanda di fine secolo, gli zingari sterminati dai nazisti meriterebbero di condividere, nella memoria collettiva dell'umana vergogna, un posto accanto agli ebrei.


Lo sterminio degli omosessuali
http://www.arcigay.it/show.php?1247



Antisemitismo, odio antico E non soltanto nazista
« Pio XII non c'entra con la Shoah e non è paragonabile a Torquemada Ma la Chiesa preconciliare si è sempre sforzata di convertire i giudei »
Giorgio Israel sul
Corriere della Sera

Non è pensabile che secoli di « disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei » — per dirla con le parole del pregevole documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture ( 2001) — non lascino traccia e che i passi necessari a dissiparne le conseguenze possano essere compiuti in poco tempo. Richiede soprattutto due requisiti: che l'ombra del passato non gravi come un pregiudizio sul presente; e che le azioni presenti indichino in modo inequivocabile la volontà di superare definitivamente gli errori del passato senza disconoscerli. È legittimo chiedere a chi ha subito un torto di non farsi condizionare per sempre dal passato, purché non si avanzi l'inaccettabile pretesa che il torto non sia avvenuto. Qui equilibrio e saggezza sono doti necessarie.
Nel dibattito suscitato dalla pubblicazione sul Corriere della Sera del documento sui bambini « giudei » , più d'uno si è mosso con l'incedere di un elefante in una cristalleria, provocando sconquassi che si spera non abbiano conseguenze devastanti.
È sconcertante che il documento sia stato accolto con un fuoco di fila di clamori, come di fronte ad una rivelazione capace di ribaltare la visione storica degli eventi e dei personaggi in gioco. In realtà, esso conferma quel che si sapeva da un pezzo. Occorre forse ricordare che, per secoli, la massima aspirazione della Chiesa cattolica è stata di estinguere la presenza ebraica, sanzionando così che il Messia era giunto, visto che il popolo « eletto » si era tutto riconosciuto in lui? Tale finalità è stata perseguita nei secoli con mezzi più o meno brutali, e quelli descritti nel documento appartengono ai secondi. Del resto, la sostanziale adesione della Santa Sede alle leggi razziali fasciste si spiega soltanto entro questa visione. Altrimenti, che senso avrebbe avuto la sua richiesta, dopo la caduta del fascismo, di mantenere parte della legislazione razziale, segnatamente quella concernente i matrimoni misti? Aveva senso, perché si sperava di dissolvere a poco a poco la presenza ebraica, imponendo a coloro che contraevano un matrimonio misto di educare i figli cristianamente.
Queste sono le colpe di Pio XII, note, documentate e confermate dalla recente « scoperta » .
Queste e non altre. Parlare di Shoah a proposito di Pio XII significa sostituire a colpe accertate, una colpa di omissione e silenzio indiscutibile, ma temperata da ciò che indubbiamente egli e la Chiesa fecero per salvare molti ebrei. Chi scrive è qui perché suo padre fu nascosto a San Giovanni in Laterano, e non è il solo.

Ma perché tanta insistenza a parlare soltanto di Shoah? Perché ormai la Shoah, vista come un evento unico e senza confronti, viene identificata con l'antisemitismo stesso. Tutte le altre forme di ostilità antiebraica sono dimenticate o derubricate a eventi minori, magari riservando loro termini diversi, come « antigiudaismo » per l'antisemitismo cristiano. Sono trucchi verbali mediocri, cui conviene opporre soltanto l'ammonimento di Marc Bloch secondo cui « se le scienze dovessero, per ciascuna delle loro conquiste, cercarsi nuovi appellativi, quanti battesimi e perdite di tempo nel regno delle accademie! » . La conseguenza è che la storia del « disprezzo, dell'ostilità e della persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei » — l' « antisemitismo » , ma se il termine non piace si faccia uso del simbolo « x » — anziché essere considerata come un fenomeno storico unitario, articolato in dinamiche e manifestazioni anche molto differenti e di varia gravità, viene scomposta in pezzi disgiunti, anzi in due pezzi: l'antisemitismo « vero » , quello dei nazisti, e il resto, di importanza marginale.

Gli chiederemo piuttosto cosa si debba pensare di chi scriveva: « Se insieme con il positivismo, il libero pensiero e il Momigliano [ che si era suicidato] morissero tutti i Giudei che continuano l'opera dei Giudei che hanno crocefisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione » . Si penserà che era un indifferente? Un antipatizzante? Uno che provava repulsa storico- religiosa? ( Per inciso, era Agostino Gemelli). E che dire delle prediche radiofoniche postbelliche — quando della Shoah si sapeva tutto — di padre Lombardi, « microfono di Dio » , che citava l' « Olocausto » come prova del « terribile destino » di quel « popolo eletto diventato reietto »

Invece di emettere superficiali sentenze storiografiche, sarebbe istruttivo studiare la storia della persecuzione e dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna medioevale, e la conseguente distruzione di una straordinaria esperienza storica; leggere i testi classici, da Amador de los Ríos a Baer, per misurare la metodicità con cui la Santa Inquisizione perseguì la distruzione dell'ebraismo di Spagna; compulsare i terribili elenchi di migliaia di bruciati sul rogo, che potrebbero servire a creare uno Yad Vashem spagnolo, e che si estendono su un arco temporale lungo soltanto per l'assenza degli strumenti teorico- pratici adatti alla pianificazione scientifica e industriale dello sterminio, che è poi l'unica vera specificità della Shoah.

La storia va visitata con equilibrio. Non è affatto secondario il modo in cui viene imposta la conversione: come alternativa alla morte, o con mezzi più civili. Ma il contesto progettuale è il medesimo: quello dell'estinzione dell'identità ebraica. Oggi, che questa tragica storia sembra essere dietro di noi — per gli sforzi generosi di coloro che da qualche decennio lavorano per cancellare i veleni del passato — , non dovrebbe essere più facile ammetterlo? A che giova negare e minimizzare, ridurre la storia dell'antisemitismo a una vicenda germanica, se non a gettare un macigno sulla via della comprensione reciproca? Se vogliamo far avanzare la comprensione reciproca e rivalutare le famose radici « giudaico- cristiane » , non bisogna lanciare fra le ruote il bastone di una visione storica unilaterale e assolutoria; accusando altri di usare la storia per far polemiche correnti e poi consentendosi la stessa libertà con intenti opposti.


occhiali    scarpe    arti artificiali

Un numero speciale di Diario
Introdotto dallo scrittore Jorge Semprun, che ragione sulla necessità di salvaguardare le testimonianze dei sopravvissuti alla shoah, e da Amos Luzzatto e Stefano Levi della Torre che sottolinea i pericoli dell'antisemitismo, questo numero approfondirà in particolare, con un saggio dello storico Mario Toscano e testimonianze, la lenta dissoluzione delle leggi razziali che promulgate nel 1938 hanno avuto effetti ancora per molti anni del secolo. In sommario, tra gli altri, approfondimenti di Marcello Pezzetti sulla rivolta nel campo di Auschwitz, di Michele Sarfatti sulle leggi razziali nell'Albania italiana; Gabriele Eschenazi e Jean Blanchaert sul processo in contumacia a Mengele.

Inoltre lo scrittore Javier Cercas interviene sui temi della memoria condivisa in Spagna illustrata anche con un reportage sulle fosse comuni dell'epoca franchista; la regista Francesca Comencini racconta la Bosnia a dieci anni dalla guerra; diversi reportage dai luoghi dell'orrore dall'Argentina dei desaparecidos alla Russia sovietica e qualche storia curiosa dove la memoria scende sul campo di calcio.


Sul filo della Memoria
il numero speciale di
Golem l'indispensabile

I siti sulla Shoah
sullo speciale di
l'Arengario del 2003


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  30 gennaio 2005