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PAROLE SCOMPIGLIATE
Le lacrime del Venezuela
Caracas - giorno 1
Barbara Schiavulli su Radiobullets.com


Il mio viaggio in Venezuela comincia con un uomo che si butta da un ponte mentre gli sfreccio accanto appena uscita dall’aeroporto e con le lacrime di una madre.

In realtà inizia ben due giorni prima quando il 15 agosto ricevo un messaggio da un’amica giornalista che sta a Caracas e mi chiede se riesco a procurarmi una medicina antirigetto per una ragazza di 18 anni a cui hanno trapiantato il fegato. Sono giorni che leggo del Venezuela, della storia, del petrolio, della politica, della sinistra e della destra, delle proteste, delle accuse, delle vendette, degli americani con le mani ovunque. Leggo e ascolto delle ragioni degli uni e degli altri. Cerco di farmi un’idea e di mantenere le distanze che si frantumano nel momento in cui qualcuno mi chiede aiuto. Ma è Ferragosto, siamo in Italia e il medicinale che mi chiede non è reperibile facilmente. Bisogna farsi fare la ricetta, ordinarlo in farmacia, aspettare che arrivi. E io in poche ore sarei partita. Il farmaco in Venezuela non si trova. Prima c’era al mercato nero, ma ad un prezzo esorbitante per un mamma infermiera che guadagna 12 euro al mese. In Italia costa 104 euro per sessanta pastiglie, non oso immaginare in Venezuela, dove un litro di latte costa 50 centesimi, un’enormità per chi vive con una banconota da 10 euro al mese.

Ora sua figlia prende tre pastiglie al giorno del medicinale scaduto, ma è arrivata a prendere steroidi veterinari, per sostituire quelli destinati agli umani che non riuscivano a trovare. Prometto di tentare. Questa è la crisi, quando una ragazza, una delle prime trapiantate del Venezuela, quando dovrebbe pensare solo a riprendersi con un fegato nuovo, lotta tra la pastiglia che oggi c’è e domani no, e un fegato che le si può rivoltare contro in qualsiasi momento. Si è iscritta all’università Daniela con i capelli biondi, studia gastronomia. Ci prova, in un paese che dovrebbe essere ricco invece arranca come le persone che vedo frugare nei cassonetti, in ogni cassonetto.

La mattina della mia partenza mi precipito alla farmacia vicino a casa. E sono gentili. Non so perché mi stupisco, ma lo faccio. Mi dicono che bisogna ordinare il farmaco che non arriverà prima delle 17, gli dico che mi nuovo alle 15 per andare in aeroporto. Rapiti dalla storia, pensano ad una soluzione. La signora della farmacia afferra il telefono e chiama il collega alla farmacia dell’aeroporto. Non risponde, gli manda un messaggio. Si prende il mio numero. “Ti facciamo arrivare il medicinale in aeroporto, lo prendi e parti. Mi dice di correre da un medico, di farmi fare due ricette, una da dare alla farmacia, l’altra per il viaggio giusto se qualcuno ha qualcosa da dire. Chiamo un amico medico, gli racconto la storia, non ci pensa due volte, “vieni subito qui che ti faccio la ricetta”. Corro, vado, ho ancora un mucchio di cose da preparare, ma non importa. So che è una goccia nel mare, ma è la mia goccia nel mare. So che questa confezione le durerà solo un mese. Ma sarà un mese in più. Poi arriverà qualcun altro, poi cercheranno altre soluzioni. Il medico mi fa le ricette, che conservo gelosamente. Spero solo che quando arrivo in aeroporto la confezione sia arrivata, siamo sul filo del rasoio per i tempi del volo. Giungo in aeroporto, consegno i bagagli, mi precipito a un altro terminal con la borsa in spalla più pesante del mondo e varco l’ingresso della farmacia. Ci sono 30 giorni di vita di una persona in quel posto. Neanche la conosco, ma è già il mio simbolo della crisi venezuelana. Non ci sono scuse per questa sofferenza, per quella della gente costretta a buttarsi da un ponte quando si ammala. Guardo la farmacista con occhi speranzosi, sono in anticipo, “mi dica che è arrivato”, da sotto il bancone, estrae un bel pacchetto e mi sorride. “Eccolo qui, buona fortuna e buon viaggio”. Schiaccio la confezione, bella grossa, per metterlo nella borsa e volo in Venezuela.

Appena arrivo viene a prendermi la mia collega giornalista, mi comincia a parlare del paese e della situazione, sfrecciamo tra i quartieri, “qui fanno le manifestazioni, qui è molto pericoloso, qui hanno ucciso un uomo”. La criminalità una volta riservata alle periferie, ora è ovunque. La gente cammina in fretta per le strade, una grande città piena di palazzoni avvolti nel verde.

Ma prima ancora di entrarci, c’è un ponte, la strada è almeno a quattro corsie, un uomo si ferma, scende dalla macchina e si butta. Il traffico si interrompe, la polizia arriva, tutti a fare foto. “I suicidi sono aumentati, non avere medicine, non avere lavoro, non avere speranza, è come un colpo di proiettile alla testa”, dice la mia voce narrante di questo viaggio.

Tiriamo dritto, sento fare telefonate. Ci fermiamo a un incrocio. Sale una donna, con la divisa da infermiera, fa anche la tata al bambino appena nato della mia collega venezuelana, anche se ora non ne avrebbero bisogno, non vogliono dirle addio, perché sanno che lei ha bisogno. E chi ha due lire in più le condivide con la famiglia e con chi può aiutare. Non le hanno detto niente. Mi presentano come un’amica appena arrivata dall’Italia. Mi stringe la mano morbida, con un sorriso che sa di benvenuto. Poi apro la mia borsa e tiro fuori il pacchetto un po’ sgualcito, e glielo metto in mano. Lo guarda, mi guarda, lo riguarda. E scoppia a piangere. “Qui c’è la vita di mia figlia, grazias, grazias, grazias”. E non riesce a smettere di piangere. Piange attraverso tutto il centro di Caracas, piange mentre vediamo scorrere la gente, mentre saliamo su una collina, mentre ci avviciniamo verso casa. Piange di gioia e dolore. Piange di sollievo e di speranza. Sono le lacrime della crisi. Le lacrime di una mamma che ha guadagnato un mese per la sua bambina. Sono le lacrime del Venezuela.


PAROLE SCOMPIGLIATE
Giorno 1 - Le lacrime del Venezuela
Giorno 2 - Il lusso di far pipì
Giorno 3 - La colpa di nascere

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  18 agosto 2017