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Orrore e speranza
Umberto De Pace


Mentre continua la carneficina di civili palestinesi a Gaza da parte dell'esercito israeliano, quale conseguenza del progetto (improbabile) di distruggere definitivamente Hamas, emergono sempre più chiaramente le testimonianze dei sopravvissuti al massacro di civili israeliani perpetrato dai miliziani di Hamas e della Jihad islamica e, come accennavo già nel mio primo articolo, quasi certamente accompagnato da non pochi abitanti di Gaza al loro seguito. Secondo i più recenti riscontri anche miliziani di Is-Palestina (jihadisti dello Stato Islamico) hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre (Limes, 10/2023). Tra i gruppi più attivi presenti nelle file dell'Is-Palestina c'è al-Tawhìd wa al-gihad (Monoteismo e jihad) che ha rivendicato l'uccisione, avvenuta il 15 aprile 2011, di Vittorio Arrigoni cooperante e attivista dei diritti umani. Le testimonianze di tali massacri sono raccapriccianti, di puro orrore, con violenze di una crudeltà inaudita in particolare, come sempre, nei confronti delle donne. Nessuna ingiustizia, nessuna privazione, nessun sopruso potranno mai giustificare tali comportamenti nei confronti di civili inermi.

A tale orrore si è voluto fin da subito rispondere con altro orrore allontanando e rendendo ancor più difficile la possibilità di rendere giustizia alle vittime, di individuare e assicurare alla giustizia i responsabili degli eccidi e delle violenze. Una punizione collettiva quella del governo israeliano dettata dalla vendetta, non ultimo, per nascondere (anche se solo momentaneamente) le proprie pesanti responsabilità che hanno contributo a giungere a tanto. Responsabilità che stanno anch'esse venendo alla luce sempre più evidenti e documentate e delle quali già da subito molti israeliani hanno chiesto conto al governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu.

Eppure ancor oggi, pur di fronte all'evidenza dei fatti, prevale nella maggioranza dei casi il processo di polarizzazione che, in parte inevitabilmente, ogni conflitto trascina con sé. Quello in corso tra israeliani e palestinesi assume in tal senso punte ancora più estreme a causa della lunga durata del conflitto e della sua recrudescenza. In tale processo i meccanismi di semplificazione, unificazione e diffusione, compattano gli opposti schieramenti a discapito della realtà dei fatti.
Ed è così che da una parte, quella di Israele è una lotta del “Bene contro il Male”, da parte dell'unica democrazia mediorientale, faro dell'Occidente, a difesa della quale è dovere del “mondo libero e democratico” schierarsi. Accusare o condannare Israele equivale a fiancheggiare il terrorismo islamico, a fomentare l'antisemitismo, magari dissimulandolo attraverso l'antisionismo. “Oltraggiosamente falso” è affermare che in Israele vi sia un illegale regime di oppressione militare e di Apartheid, un'occupazione coloniale, punizioni collettive, rappresaglie, vendetta.
Sul fronte opposto fa da contraltare l'incondizionato sostegno alla lotta di liberazione del popolo palestinese, al suo diritto all'autodeterminazione, indipendenza e rivolta, anche armata, contro l'oppressione israeliana, a prescindere da chi la sta conducendo. Per non pochi anche l'attacco organizzato da Hamas il 7 di ottobre rientra tra tali diritti.

Inutile contrapporre alle suddette “credenze”, nelle quali si intrecciano mezze verità, atti di fede, omissioni e mistificazioni, un ragionamento critico, articolato e necessariamente complesso, come articolata e complessa è la realtà dei fatti. Sono “credenze” e quindi tese soprattutto a sostenere le proprie ragioni e convinzioni, i propri pregiudizi, a prescindere.
L'involuzione della democrazia israeliana, sempre più verso un regime di oppressione nei confronti dei palestinesi dei territori occupati, la sua trasformazione in uno Stato confessionale basato su un sistema di supremazia ebraica è un dato di fatto.
La corresponsabilità dei governi israeliani, a partire dalla fine degli anni '80 con ministro della difesa Yitzhak Rabin, nella nascita, crescita e sostegno di Hamas, proseguito fino al 7 ottobre scorso, è un dato storico.
Le constatazioni o denunce di perpetrare un regime di segregazione, separazione e dominazione, o di essere o assomigliare sempre più a un regime di Apartheid non provengono solo da organizzazioni indipendenti come Amnesty International, ma sono oggetto di aperto dibattito, non da oggi, su autorevoli riviste di geopolitica italiane (Limes) o statunitensi (Foreign Affairs) solo per citarne alcune.
L'egemonizzazione della lotta di liberazione palestinese da parte dei movimenti integralisti islamici, primo fra tutti Hamas, è anch'esso un dato di fatto. Parte di un cambiamento globale mondiale che a partire dalla fine degli anni '70 ha visto, parallelamente all'esaurirsi della guerra fredda, alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, alla caduta delle ideologie e all'illusione della supremazia americana, la nascita e il prevalere di movimenti religiosi islamici, eredi e nuovi protagonisti di quelle che furono le lotte di liberazione anticoloniali, nazionaliste e rivoluzionarie, precedentemente fallite, incompiute o “tradite”.

Occorre prendere coscienza, in particolare da parte delle forze di sinistra, che con tali organizzazioni sono cambiati i paradigmi di riferimento ideali ma non solo, anche strategici, nei quali i fini e gli scopi della lotta vanno al di là della “liberazione e autodeterminazione”, intesa come acquisizione di diritti civili, sociali, politici o nazionali, per attestarsi in un ambito confessionale nel quale il “quadro di riferimento è l'Islam, che determina i suoi principi, obiettivi e mezzi”, come riporta lo Statuto di Hamas del 2017. Sostenere che i massacri e le violenze del 7 ottobre perpetrate da parte dei palestinesi sono atti legittimi o giustificabili non è solo un inqualificabile errore ma ancor prima è un'infamia.

Non è una questione di equidistanza quanto piuttosto una questione di consapevolezza della realtà dei fatti ai quali ci troviamo di fronte. Consapevolezza che non può prescindere, in particolare per chi come noi è spettatore di quei fatti, dal saper guardare e condividere il dolore e la sofferenza delle vittime, di tutte le vittime al di là di qualsiasi loro appartenenza. Questa è la premessa per qualsiasi soluzione di pace. Sentire la presenza di questa consapevolezza accompagnata da una proposta concreta di soluzione del conflitto da parte di un premier europeo, espressa direttamente e francamente di fronte al primo ministro israeliano, è un segno di speranza. Abituati alle pavide prese di posizione dei nostri rappresentanti europei, agli appelli autoconsolatori e di facciata, come quelli fra gli altri del governo italiano, sentire parole chiare, semplici e ferme da parte del primo ministro spagnolo, Pedro Sànchez, ci indica la strada da seguire e sostenere affinché l'Italia e l'Europa tutta se ne faccia promotore, non tanto e non solo nei confronti di Israele e della Palestina, quanto nei confronti degli Stati Uniti, unici (forse) in grado di fermare la vendetta israeliana in corso.

Dalla parte dei popoli israeliano e palestinese, senza bandiere, almeno fino a quando il tempo non avrà sbiadito il sangue innocente del quale oggi sono macchiate.

Umberto De Pace

Articoli precedenti:
Dalla parte dei popoli israeliano e palestinese
Criminali e ipocriti di guerra


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  20 ottobre 2023