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RIFLESSIONI
Economia e Politica
Umberto Puccio

Tutti i dibattiti e tutte le proposte di "risposta" alla pandemia da Covid-19 rimandano al problema di fondo, che tutti evitano di affrontare: quello del rapporto tra Economia Politica. Rapporto che è, anche e soprattutto, determinato dalla configurazione attuale dei due termini.
Prima di passare alla loro analisi (in risposta alla domanda: Cosa sono oggi concretamente economia e politica?"), vorrei esaminare alcune parole ed espressioni che si collocano in un campo semantico ibrido e vengono usate dai giornalisti e dai politici per convalidare: con una terminologia economicistica, le proprie posizioni politiche; e con una terminologia politicistica, la propria "dottrina" economica.

Me ne ha fornito lo spunto un'intervista di De Bortoli a Francesco Forte alcuni giorni fa. La tesi di fondo era quella (veteroliberistica, trasformata in "neoliberistica") che lo Stato non deve  intervenire in alcun modo nel naturale e oggettivo meccanismo del mercato basato sulla libera concorrenza e sul profitto.
Lo Stato deve fare il gendarme e il garante delle regole del libero mercato, limitandosi a sanzionare le situazione di monopolio e oligopolio economico-finanziario. C'è un'aporia di fondo in questa concezione: se quello del libero mercato è un meccanismo che procede "motu proprio" in modo "naturale" e "oggettivo", la garanzia dello Stato è del tutto superflua. In realtà questa "garanzia" non è altro che la legittimazione, il sigillo di autenticità di un mercato che non è affatto libero, né basato sulla libera concorrenza e sulla parità di posizioni economiche di partenza.

L' ideologia nordamericana del Paperon de' Paperone, della possibilità per tutti di scalare la piramide economico-finanziaria con le sole proprie forze (quello "che si è fatto da sé"), che viene contrabbandata come democrazia economica, non è convalidata dal fatto che un certo numero (più negli Stati Uniti, meno in Italia, dove non funzionerebbe il cosiddetto "ascensore sociale") arriva in cima. In realtà, i pochi scalano questa piramide sulla testa e sulle spalle dei moltissimi che vengono ricacciati a livello zero o ai primi piani.

La prima espressione "ibrida" è appunto quella di democrazia economica (o economia democratica). Il trasferimento di un attribuzione, che è relativa e significante in un campo, all' altro svuota l'espressione di un preciso significato e la colloca nella categoria della persuasione retorica. La democrazia è una forma decisionale che obbedisce al principio dell' uno vale uno, cioè dell'uguaglianza e del pari peso del singolo votante e del singolo voto. La segretezza del voto è la garanzia di questa equipollenza. L' economia (e la finanza) obbediscono alla logica opposta della disuguaglianza di potere: uno vale in quanto ha di più (in azioni, in danaro, in produzioni) dell'altro.
In realtà esisteva sino a poco tempo fa una forma ibrida di finanza: quella delle Banche di Credito Cooperativo, in cui l' assemblea dei soci era l'organo deliberativo, funzionante in base al principio democratico dell' uno vale uno. Ho detto "esisteva", perché la riforma del credito cooperativo, varata dal governo Renzi, ha trasformato tali banche in istituti finanziari e società per azioni del tutto uguali alle altre banche. Una trasformazione analoga è avvenuta nelle cooperative di consumo. Ciò è la dimostrazione di fatto del fallimento di una forma di controllo e gestione democratica della economia e della finanza che obbediscono alla logica ferrea della concorrenza e del profitto. Naturalmente i sostenitori (e fautori) di tali trasformazioni le giustificano come adeguamento al futuro, come stare al passo dei cambiamenti dei "nuovi" tempi, della imperante globalizzazione. Vera e propria minaccia che ha un che di dittatoriale: chi non si adegua, è condannato a morte (economica e/o finanziaria).

Altro errore di prospettiva è quello di equiparare il monopolio di Stato al monopolio economico-finanziario e considerare l'abolizione del primo come necessaria "liberalizzazione" del mercato. Nell' espressione "monopolio di Stato" vengono confuse due categorie completamente diverse: o meglio, l'espressione che indica la prima viene usata per squalificare la seconda.
La prima categoria è quella di origine feudale con cui il Signore feudale imponeva tributi, dazi e gabelle. Anche gli Stati moderni avevano ereditato alcune forme di monopolio feudale, in gran parte eliminate. Ad esempio il Monopolio di Stato sul sale e sui tabacchi.
La seconda categoria è quella riguardante l' esclusività di competenza, di organizzazione e di gestione da parte dello Stato dei servizi pubblici, la cui fruizione deve essere garantita, secondo la nostra Costituzione, a tutti i cittadini, che a loro volta devono contribuire, "ciascuno secondo le proprie possibilità", alla tassazione generale. La nostra Costituzione ha inserito infatti, oltre alla universalità, anche il principio solidaristico  della progressività della tassazione.

Oggi ci si domanda come mai i cittadini italiani si comportino inconsciamente come sudditi e abbiano un rapporto a dir poco conflittuale nei confronti delle tasse e dello Stato. All'entità dell'evasione fiscale in Italia si risponde col solito qualunquismo argomentativo dei "furbi" che sarebbero l'eccezione che conferma la regola, delle "mele marce", del rifiuto delle generalizzazioni, della "complessità del reale". Dire che la realtà è complessa, è un' ovvietà. Ma usare il concetto astratto di "complessità" per rifiutarsi di analizzare i molteplici fattori che compongono una realtà complessa, o per non rispondere nel merito ad un' analisi dell'interlocutore per negarla, è uno dei mezzucci retorici normalmente usati da giornalisti e politici per truccare la correttezza del dialogo (insieme con quello di spostare l'argomento della domanda).

Quello che vien definito come scarso senso civico, è, invero, un atteggiamento diffuso, quasi uno stigma dell'italianità,  che ha radici storico-culturali risalenti all' Alto Medioevo, allo presenza del Papato romano (che impedì l'affermarsi di regni romano-barbarici in tutta la Penisola italiana). Il Cristianesimo, dopo Costantino, aveva un atteggiamento negativo nei confronti dello Stato, ritenuto da Sant'Agostino "pena et remedium peccati". Neppure il tomismo dei Domenicani cambiò sostanzialmente questo atteggiamento. Anzi lo aggravò, dopo la frattura tra Riforma protestante e Cattolicesimo romano: nella Santa Inquisizione, gli Stati cattolici e la Chiesa cattolica romana svolgevano un' analoga funzione repressiva, dividendosi l'ambito geopolitico di competenza.

Contemporaneamente la struttura geopolitica dell'Italia rinascimentale favorì, sul piano della cultura laica, l' affermarsi della teoria guicciardiniana del "particulare" e la sconfitta della visione "nazionale" di Machiavelli, in cui lo Stato si configurava come prima espressione dell'interesse generale.  Dopo il breve e illusorio patriottismo neoguelfo di Pio IX, l' unificazione dell'Italia operata dalla monarchia sabauda avvenne
in contrasto con il papato. Il primo mezzo secolo dello Stato italiano fu condizionato da una paradossale schizofrenia: il "Non expedit" di Pio IX impediva ai cittadini italiani, in quanto cattolici, di partecipare alla vita politica del nuovo Stato. Essendo la stragrande maggioranza degli Italiani di religione cattolica, ciò si trasformò in una deligittimazione dello Stato e contemporaneamente esasperò il carattere elitario e anticlericale (se non "massonico") del laicismo liberale ottocentesco.

Nel dopoguerra, la reazione alla versione fascista e dittatoriale dello Stato aumentò la diffidenza (e quindi la non accettazione di fondo) da parte del cattolicesimo e della DC nei confronti dello Stato e del pubblico. La gestione democristiana del potere ha favorito uno sterile connubio tra pubblico e privato, con prevalenza del privato. Prevalenza che, dopo il breve periodo delle nazionalizzazioni del primo Centrosinistra, è  diventata oggi strapotere assoluto.
D'altra parte, la seconda di quelle due chiese ideologico-politiche (che, secondo Norberto Bobbio, hanno dominato la scena politica della Prima Repubblica), cioè il PCI, ha avuto, sino al cosiddetto "compromesso storico", la classica visione marxista-leninista dello Stato borghese come nemico da abbattere. Il fatto è che in Italia la borghesia è stata sempre minoritaria e debole, così come debole e a carattere dinastico-familiare è stato il capitalismo italiano, che ha vissuto sotto l'ala protettiva dello Stato. La vicenda della repentina scomparsa del Partito d' Azione d'ispirazione gobettiana è significativa in proposito. Pur avendo avuto un ruolo determinante nella lotta di Liberazione, è stato messo in un canto per la sua irrilevanza nel Parlamento della Repubblica. Ma importantissimo, in termine di diritti civili e di laicismo liberale, è stato il suo contributo alla stesura della Costituzione.

Il permanere di questo pregiudizio negativo nei confronti dello Stato, considerato come ingiusto e oppressivo tassatore (e affossatore della libera iniziativa privata), spiega la reazione negativa alle parole del compianto Padoa-Schioppa, che aveva affermato che pagare le tasse è bello.
In Italia, il solidarismo, che dovrebbe essere alla base del patto sociale tra i cittadini e nel rapporto fiduciario dei cittadini con lo Stato, è riservato al cosiddetto volontariato. Il che sarebbe estremamente positivo per la comunità nazionale, se il volontariato fosse complementare (o, con termine oggi molto usato, sussidiario) al solidarismo del patto sociale. Invece il volontariato è sempre più sostitutivo e assume la caratterizzazione di un atto caritatevole, come compensazione riparazione  di comportamenti economico-finanziari del tutto opposti. in quanto obbedienti alla logica della "mors tua, vita mea", della concorrenza spietata, del profitto personale. E' fenomeno comune, verificabile nella vita di tutti i giorni, constatare che la stessa persona che evade le tasse, che non rilascia fatture e che si scaglia contro lo Stato "ladrone" partecipi attivamente a molteplici associazioni di volontariato. Questo atteggiamento schizofrenico si spiega con la secolare e ormai radicata influenza del cattolicesimo romano sull'etica comune, in cui il civismo o non è contemplato, o è ridotto ad ipocrita orpello.

Ma qual è il potere dello Stato (e quindi della politica) nei confronti di un economia, che, dopo la caduta del Muro di Berlino e l'implosione dell'URSS, si è "mondializzata" e uniformata al modello capitalistico? Quella che era una competizione a livello tecnologico e militare tra due diverse ideologie e due diversi sistemi economico-polititici, si è trasformata in una competizione, interna al capitalismo mondiale, tra molteplici macro-Stati (o aggregazioni di Stati in aree di libero scambio, tra di loro concorrenti) a tutti i livelli: mediatico, tecnologico, economico-finanziario, militare. I conflitti armati si sono parcellizzati e moltiplicati, all'interno di questo stato di guerra permanente e globale, nelle aree di maggior competizione per il predominio economico-finanziario. Questi macro-stati svolgono un seppur limitato potere di condizionamento della dinamica economica attraverso le dogane. E ricorrono agli antichi strumenti delle guerre commerciali e doganali.

Dentro questo quadro, si inseriscono, come elementi di ulteriore riduzione del potere della politica a livello macro-statuale, le multinazionali, che hanno dimensioni mondiali e intrecci e intersezioni complicate con la dimensione macro-statuale. L' ONU e tutte le varie rganizzazioni (e/o tribunali) internazionali non hanno effettivi poteri sovranazionali, in quanto condizionate dall'adesione, dagli interessi, dalle alleanze e dai giochi di potere dei componenti. Solo uno Stato federale a livello mondiale potrebbe dare alla politica e alla dimensione statuale qualche possibilità in più di contrastare e limitare lo strapotere economico-finanziario delle multinazionali e, in generale, del modello capitalistico.

Quando si parla di crisi della democrazia a livello mondiale si usa un eufemismo per non ammettere la sempre maggiore dipendenza della politica dall'economia. Una domanda: il capitalismo può continuare ad esistere e a trasformarsi senza ridurre ad una larva, ad una finzione. la democrazia stessa? L'involuzione autoritaria delle democrazie considerate più "avanzate" sembrerebbe propendere per una risposta negativa.

La crisi dell'economia mondiale innescata dall'attuale pandemia ha evidenziato i limiti del potere degli Stati (anche di quelli che ho definiti col prefisso "macro") e della loro politica.
Anche sul vaccino anti-Covid, cioè su una risposta globale ad una pandemia che minaccia tutti i cittadini del Pianeta (e che li rende paradossalmente tutti uguali), non si è arrivati all' abolizione del brevetto su questo farmaco. E quindi ci si è negata la possibilità di distribuirlo e iniettarlo a tutti. Invece si assiste ad una gara tra le grandi potenze ad accaparrarsi per prime (pagandoli in anticipo, senza che sia testata a livello scientifico la loro efficacia) i vari vaccini. Il vaccino anti-Covid si è trasformato così in un'arma (ancora più terribile della minaccia nucleare) di ampliamento della propria influenza politica ed economico-finanziaria.

Che cosa è rimasto, insomma, allo Stato e alla politica?
La gestione del consenso a fini interni ed esterni. A fini esterni, servendosi dell'estremismo religioso e/o del nazionalismo etnico-razziale, come arma nel conflitto di potenza dello scacchiere geopolitico. A fini interni, come mezzo di parziale redistribuzione del reddito, che tenga sotto controllo le tensioni sociali, impedendo che esse deflagrino e possano sfociare in un cambiamento. L'equità fiscale, anche se richiesta, come in Italia, dalle varie costituzioni, non è il risultato concreto di tale redistribuzione. E neppure il suo fine effettivo. Negli Stati con alto debito pubblico e/o con un sistema fiscale inefficiente (vedi l'Italia!) al Bilancio statale resta poco da "redistribuire" al fine di attenuare le crescenti disuguaglianze economico-sociali. Nel caso italiano, il Patto di Stabilità della UE pone dei limiti e delle regole al sistema bancario e alle finanze pubbliche, a favore dei cosiddetti investimenti produttivi.

Se analizzate la pubblicistica politica e le politiche di tutti i partiti italiani, sia di "destra" che di "sinistra" noterete la presenza di un mantra: far ripartire l'economia con investimenti pubblici nei "settori produttivi".
Va da sé che i settori produttivi sono quelli che aumentano il capitale delle aziende private o delle società a capitale misto pubblico-privato. Tutto quello che non rientra in questa categoria, viene definito in senso negativo come "economia parassita" o, peggio, come "assistenzialismo".
Sfugge (o non si vuole che traspaia) il rapporto perverso tra i partiti e i vari pacchetti elettorali, che è un rapporto clientelare: alcuni, nel settore del lavoro dipendente, specie pubblico; altri, nel lavoro autonomo e imprenditoriale. Ciò ha avuto effetti deleteri sui servizi pubblici e sul loro funzionamento. Anche i partiti che si definivano "di sinistra" si sono "adeguati" al sistema elettoralistico-clientelare della Prima Repubblica post-Mattei e post-IRI. Il PSI, essendo elettoralmente minoritario, per gareggiare con la DC; il PCI, per demolire la DC e il PSI, spianando così la strada all'avvento di Berlusconi e della cosiddetta Seconda Repubblica. Il processo di trasformazione, non solo nominale, degli ex-partiti di sinistra è arrivato al punto  che sono diventati iniziatori e sostenitori del processo di privatizzazione dei servizi pubblici, invece di farli funzionare in quanto pubblici al servizio di tutti i cittadini. Come vorrebbe la Costituzione!

Eppure, dovrebbe essere comprensibile  per dirsi non dico "di sinistra", ma perlomeno "liberal-democratici", la differenza tra la "produttività" dei servizi pubblici e quella delle aziende private. Che questa differenza sia "evaporata" lo dimostra, sia il termine "produttività" (che ha propriamente un' accezione economico-finanziaria), sia il cambiamento di nome dei settori pubblici della sanità e della scuola. Nella sanità, si è passati dalla USL (Unità Sanitaria Locale) alla ASL (Azienda Sanitaria Locale). I dirigenti sanitari, i direttori didattici e i presidi sono diventati tutti manager. Gli studenti da discenti si sono trasformati in clienti! Come affermava un detto latino: "Nomina sunt sequentia rerum"!

Umberto Puccio

RIFLESSIONI
GLI ARTICOLI PUBBLICATI
  1 – Riflessioni
  2 – Principi irrinunciabili
  3 – Tesoretto
  4 – La scuola
  5 – Catalogna e affini
  6 – Competenze
  7 – Identità e diversità
  8 – Identità e diversità 2
  9 – Igiene lessicale
10 – Democrazia
11 – Anniversari
12 – Tifosi d'Italia, l'Italia s'è desta
13 – Popolo!
14 – Né patria, né matria, “FRATR ÍA”
15 – L'ipocrita polemica sulle “fake news”
16 – Il discorso di Fine d'anno
17 – Neologismi
18 – La retorica dell'”anniversario”
19 – Smartphonite
20 – C'era una volta il dialogo!
21 – La crisi istituzionale che viene da lontano
22 – Dissesto idrogeologico e Legge urbanistica
23 – Le parole della politica: autonomia
24 – Europa ed europeismo
25 – La Svolta
26 – Le parole della politica: "statalismo"
27 – Le parole della politica: "sviluppo", "sostenibilità", "sostenibile"
28 – Utopia
29 – Le parole della politica: semplificazione, macchina burocratica, statalismo
30 – Le parole della politica: "giustizialismo", "garantismo"
31 – Le parole della politica: "purtroppo"
32 – Economia e Politica

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  19 dicembre 2020